SLA: con il libro di Giuliana Zurru finanziamo la ricerca… e impariamo

Ne “Il muro della vita” Giuliana Zurru racconta la storia di Eugenio Concas, che con coraggio e dignità ha lottato, fino all’ultimo, contro una forma atipica di SLA. I proventi delle vendite saranno devoluti alla ricerca su questa malattia.

di Marcella Onnis

SLA. Bastano tre lettere per sentirsi invadere dall’angoscia. Poche esperienze appaiono, infatti, così terribili come ammalarsi di sclerosi laterale amiotrofica. Sembra impossibile, ma a Eugenio Concas è spettata una sorte più terribile ancora: essere colpito da una forma violenta e atipica di SLA. La sua storia dal triste epilogo è stata raccontata da Giuliana Zurru in un libro intitolato “Il muro della vita”. Un libro che bisogna avere il coraggio di leggere per tante buone ragioni. Indegna portatrice del suo bellissimo messaggio, proverò a illustrarvele.

FINANZIARE LA RICERCA – Una prima buona ragione è che il ricavato della vendita sarà destinato alla ricerca sulla SLA (qui le informazioni sul “progetto Eugenio” promosso dall’Aisla). La scienza apre via via frontiere fino a poco tempo fa impensabili, per cui se c’è una possibilità di salvare delle vite o almeno di alleviarne le sofferenze, bisogna cercarla strenuamente. La ricerca, però, richiede pazienza, menti capaci e tante risorse. Sappiamo tutti che i fondi a essa destinati dal settore pubblico non bastano e che se aspettassimo di veder accolte le nostre proteste, la ricerca si fermerebbe. Con un piccolo contributo, invece, possiamo anche noi fare in modo che questo cammino non si fermi.

UN CORAGGIO CHE FA SENTIRE PICCOLI – Il libro racconta di un «[…] coraggio disarmante che fa sentire piccoli» e di un «[…] dolore saputo portare con forza e dignità […]». Confrontarsi con storie come questa è un dovere verso chi soffre, ma soprattutto verso la Vita: «Eugenio con la sua immobilità mi travolgeva come un treno in corsa. Schiacciava la mia mediocrità ed elevava il mio pensiero ad un’altra concezione di vita, dove l’insulsaggine, le banalità quotidiane non trovavano più posto». Non possiamo dimenticarci di quanto siamo fragili e del fatto che la nostra esistenza, anche quando sembra solida, scorre in bilico su un filo sottile. E non dovremmo aver bisogno di confrontarci personalmente con storie come queste per adottare il pensiero dell’autrice: «La vita è una porta aperta che si può chiudere per un banale colpo di vento e pensai di non dilapidarla con antichi risentimenti o nuove inutili amarezze».

LUCI E OMBRE DELLA MALATTIA – In queste pagine l’autrice ha saputo dare dell’esperienza della malattia una visione a tutto tondo, che include ovviamente le ombre – non tutte, peraltro, scontate per chi vive in mezzo alla salute – ma anche le inaspettate luci.

Tra le ombre troviamo  il fatto che la malattia, quando comporta la perdita dell’autosufficienza, “regala” anche la perdita della privacy, perdita che spesso si estende ai familiari conviventi. Il necessario andirivieni degli operatori sanitari che assistono il malato viola l’intimità quotidiana: un fardello che si aggiunge su spalle già molto provate.

Davanti a questa e alle altre ombre, non si possono condannare i malati e i loro cari che, provati dal dolore, si chiudono in se stessi, lasciano inaridire il proprio cuore. C’è, però, anche chi, come Eugenio, risponde alla sofferenza in modo opposto. Diventa, cioè, ancora più attento agli altri, partecipe dei loro drammi e capace di riconoscere nelle vicende altrui sfortune maggiori della propria: «Non era il malato che si affliggeva solo per la sua malattia, aveva interiorizzato il senso della sua sofferenza ed il convivere con essa quotidianamente l’aveva reso più sensibile anche al dolore degli altri e ne condivideva le pene».

Malattia e dolore possono quindi essere affrontati con rabbia («Pensai che la vita è ingiusta perché continua a dare a chi mai si accontenta di niente e a togliere a chi non ha più nulla se non la vita e poi si prende anche quella.») oppure con coraggio. Possono essere interpretati come un segno dell’abbandono di Dio o, al contrario, proprio della sua presenza. La sofferenza – ci ricorda l’autrice – per un cristiano può, infatti, essere vista come un Suo dono, una via per avvicinarci a Gesù.

PRIMA DI TUTTO UOMINI – Qualunque sia il modo in cui affronta il dolore, chi perde la salute non vuole comunque perdere la dignità, il rispetto che gli è dovuto in quanto uomo: «Avrebbe voluto che gli altri non si impietosissero alla sua visione, deprecava il pietismo e l’ipocrisia e desiderava essere considerato quello che era: un uomo con una mente pensante e capace di apprezzare anche solo una parola di incoraggiamento per la sua battaglia quotidiana». Anche se malati, si resta persone e – ci insegna Eugenio – si può continuare a essere padre o madre, marito o moglie. Basta desiderarlo.

Un malato pretende, ovviamente, rispetto anche dal personale sanitario che lo assiste. Giuliana Zurru non manca di sottolineare quanto sia importante – quando si è colpiti da una malattia, soprattutto così grave – avere accanto gli affetti così come personale sanitario capace, amorevole e positivo. Riguardo a loro, l’autrice ci ricorda che anche i medici, gli infermieri, i fisioterapisti e gli altri professionisti che operano nella sanità sono, innanzitutto, uomini, come tali capaci di provare affetto, paura, sdegno… Ne è un esempio la dottoressa “Trilly”, che in una lettera indirizzata a Eugenio scrive: «Non mi si parli più di muri nuovi da inaugurare in pompa magna dimenticando che dentro quei muri ci sono gli ammalati e gli operatori sanitari con le loro ansie, paure, debolezze».

ANCHE QUESTA È VITA – Dicevamo in precedenza che non esiste un solo modo giusto di affrontare la malattia. Davanti a queste vicende, i pensieri più immediati per molti di noi sono quelli che riporta Giuliana Zurru: “Questa non è vita. Meglio che il Signore se lo/la porti in Cielo così smette di soffrire”; “Questa non è vita. Capitasse a me, non vorrei continuare a vivere così”.

Per tanti di noi una sofferenza simile è inaccettabile, ingestibile: «[…] era difficile approcciarsi a lui, era imbarazzante! Cosa è giusto dire quando s’incontra una persona attaccata ad un respiratore artificiale, piena di tubi in gola, privata dell’uso della parola? Una persona che fino a qualche tempo prima era “normale” e magari conoscevi anche molto bene? Non si è preparati! Si rimane sconvolti, sconcertati, a volte non si ha il coraggio neppure di dire: “Mi dispiace!” perché ci si mette un sacco di problemi e… poi tanto sai che non ti può rispondere, e allora cos’altro gli dici? Meglio forse guardarlo da lontano, o avvicinarti, dargli una pacca sulle spalle e andare, salvo poi compiangerlo e pregare che non abbia mai a succedere una disgrazia del genere a te né a nessuno dei tuoi cari perché… chissà se avresti lo stesso coraggio di vivere quella condizione di vita o assistere un tuo congiunto».

La resa davanti alla malattia, soprattutto da parte del diretto interessato, è un atteggiamento diffuso, che non si può condannare. Neppure la Chiesa dovrebbe farlo, perché non è da tutti avere il coraggio di portare una simile croce. Per questo non c’è condanna nelle parole di Giuliana Zurru né tantomeno nella lettera che l’altra Giuliana di questa storia, la moglie di Eugenio, scrisse all’Unione Sarda, principale quotidiano sardo, nel 2007, dopo la morte di Giovanni Nuvoli che, sfiancato dalla SLA, aveva combattuto per non dover attendere la morte naturale. In questa lettera, trascritta dall’autrice, c’è massimo rispetto per questa volontà, ma c’è soprattutto la difesa di una scelta opposta, coraggiosa e meritevole di altrettanto sostegno: «Diamo voce anche alle grandi battaglie quotidiane di chi vuole affrontare la malattia, rispettiamo il diritto di chi ritiene giusto scegliere quando e come morire e di chi ritiene giusto vivere. Denunciamo anche le fatiche, le umiliazioni di chi, con l’ammalato, chiede ciò che è un suo diritto, ma ha la sensazione di chiedere un favore».

OLTRE IL MURO, LA SPERANZA – La storia raccontata da Giuliana Zurru ci indica la strada della speranza, che non è certo facile, ma che può rendere meno pesanti i fardelli che, chi più chi meno, ci tocca portare. In una sua poesia, Jacopo, il bimbo più grande di Eugenio, scrive: «[…] se c’è una persona che crede / c’è anche una persona che guarisce». La storia di Eugenio – come quella di Federica Cardia (nella foto) – ci mostrano che, purtroppo, non sempre le cose vanno così, però a volte l’improbabile accade. Allora val forse la pena di provare, di cercare dentro sé – e poi tenersi strette – la fiducia e la forza d’animo necessarie per affrontare – e possibilmente vincere – queste battaglie. È sempre Jacopo, con un’altra poesia riportata da Giuliana Zurru, a convincerci di questo. La poesia dà il titolo al libro e parla appunto de “il muro della vita”, che è «il muro delle difficoltà»: Jacopo ci invita a scavalcarlo con le nostre forze perché «oltre a quel muro c’è la speranza».

IL CORAGGIO DI VIVERE PER GLI ALTRI – L’autrice ha scritto questo libro per mantenere vivo il ricordo di Eugenio e del suo «coraggio di saper vivere per gli altri» affinché non si perda, fuori dalla cerchia dei suoi familiari e amici, la sua grande eredità morale. A noi il compito di accoglierla.

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