Ripresi gli incontri sulla prevenzione al Molecular Biotecnology Center di Torino

All’attenzione il trattamento dell’ipertensione e la terapia chirurgica dei noduli tiroidei

di Ernesto Bodini (giornalista scientifico)

L’appuntamento di lunedì 8 maggio, a cura della associazione Più Vita in Salute, ha visto come relatori il dott. Mario Bo (nella foto), cardiologo e geriatra, che ha trattato il tema “Ipertensione arteriosa: un valore giusto per tutti?”, e la dottoressa Alessandra Caracciolo, specialista in Otorinolaringoiatria, che ha trattato il tema “I noduli della tiroide. Quando una tiroide che funziona bene  deve comunque essere operata”. Il primo è direttore della S.C.U. di Geriatria all’A.O.U. all’Ospedale Molinette di Torino, la seconda è dirigente medico alla A.O. Mauriziano di Torino. Particolarmente e sempre più attuale il problema dell’ipertensione, tant’è che interessa una grande fascia della popolazione adulta, in particolare persone ultra 65enni: in Italia gli ipertesi sono oltre il 27%, e il Piemonte è la Regione maggiormente interessata. «Sono tre i tipi fondamentali di ipertensione – ha spiegato il clinico –. Nel primo caso riguarda soprattutto la pressione minima (0 diastolica) isolata, ossia dei giovani, la sisto-sistolica che evidenzia l’aumento sia della massima che della minima, la quale tende ad esaurirsi nelle persone anziane, e la dominante è la sistolica isolata, caratterizzata da un aumento importante della massima con la minima normale o addirittura diminuita». L’ipertensione arteriosa (I.A.) è fondamentalmente un problema delle persone con più di 65 anni di età, la sistolica isolata riguarda il maggior numero di persone, e ciò perché invecchiando tendono ad irrigidirsi e indurirsi le arterie di distribuzione con aumento della sistolica (o massima), mentre le modificazioni delle resistenze periferiche tendono a ridurre le resistenze a livello periferico (gli arti); da qui il fatto che la pressione differenziale tra la massima e la minima diventa molto ampia, e ciò significa che una persona anziana può avere una P.A. pari a 175/70 mmHg. «Quindi, l’I.A. – ha precisato il relatore – è un fattore di rischio per almeno due patologie: ictus e infarto, ma anche per il deterioramento cognitivo, l’insufficienza renale e soprattutto lo scompenso cardiaco». Secondo le linee guida americane per il trattamento dell’I.A. si inizia a considerare la pressione con valori oltre 150 di massima, con l’obiettivo di ridurre tale valore, e se il paziente è ad alto rischio si tende a ridurre ulteriormente tale valore. I cardiologi americani ritengono la pressione normale se inferiore a 120/80 mmHg, elevata se 130 mmHg, e vera e propria ipertensione se il valore della massima è oltre 130 mmHg; severa, invece, se oltre 140 mmHg, e ciò è dovuto ad una alimentazione e stili di vita non corretti. La condizione ottimale sarebbe avere una P.A. inferiore a 130/80 mmHg, indipendentemente dall’essere a rischio cardiovascolare, o meno. Una nazione che ha una popolazione di obesi con elevata incidenza di diabete va ulteriormente trattata. «Le nostre linee guida (europee) – ha precisato il clinico – continuano a definire l’ipertensione se con valori 140/90 mmHg, e informano che una persona con P.A. oltre 140 mmHg in modo stabile, nonostante gli stili di vita corretti, va tratta con i farmaci». Ma secondo le attuali evidenze si devono considerare valori da 120 a 129 mmHg nelle persone non ipertese, e per gli anziani da 130 a 139mmHg, quindi si dovrebbe iniziare a trattare questi pazienti considerando tali valori, dicasi per i pazienti ultra 80enni; ma prima di rivolgersi al proprio medico di famiglia è bene autocontrollarsi la P.A. per alcuni giorni e in momenti diversi prima di giungere alla conferma di ipertensione arteriosa. Gli ipertensivologi sono però prudenti: l’obiettivo che li accomuna è quello di giungere a valori inferiori 130/80 mmHg nelle persone giovani e 140/90 mmHg in soggetti ultra 65enni, ma considerando il paziente (o potenzialmente tale). «Tuttavia – ha sottolineato il cardiologo – permane il disaccordo sui criteri per identificare l’I.A. sulle soglie di inizio e sugli obiettivi della terapia. Va comunque ricordato che la P.A. è un parametro molto variabile i cui valori sono “altalenanti” anche durante la stessa giornata. Si dice la regola di riferimento è il calcolo di 100 mmHg più l’età, che di per sé è razionale, ma per considerare  una reale condizione di ipertensione è bene valutare la persona specie se affetta da altre patologie pregresse». Una persona con diabete o ipertesa (specie se giovane) se la si tratta precocemente gli si aumentano anni di vita, ovviamente controllando i suoi fattori di rischio, ma in pazienti 80enni l’obiettivo è garantire loro una qualità di vita adeguata. Con un trattamento anti ipertensivo in pazienti a basso rischio cosa succede? «Non si ottiene alcun beneficio di mortalità, di malattie cardiovascolari, di stroke e di infarto miocardico – ha spiegato il cardiologo –, ma in compenso aumentano gli episodi ipotensivi, le sincopi, le insufficienze renali acute e l’alterazione degli elettroliti, per cui non si vede un gran vantaggio ma vi è un segnale di possibile danno, tanto da dover intensificare una terapia ipertensiva in persone a basso rischio cardiovascolare». L’ipertensione è anche un fattore di rischio per la demenza, in quanto è dimostrato che uno stretto controllo della P.A. a 40-50 anni, in prospettiva riduce l’incidenza del declino cognitivo specie dopo i 75-80 anni, ma se si va ad abbassare con i farmaci eccessivamente la P.A. in pazienti di 75-80 anni succede che quelli con la P.A. a 125 mmHg, hanno come conseguenza un peggioramento cognitivo, quelli che invece non sono trattati con terapia ma con una pressione inferiore a 125 mmHg hanno un miglioramento cognitivo. Il rischio di mortalità aunenta per valori pressori inferiori a 150 mmHg, ma aumentano di poco per valori superiori. A questo riguardo va precisato che si considera persona anziana quando è ultra 75enne. Ma quali pazienti trattare nel modo più opportuno? «I pazienti che hanno gravi limitazioni fisiche e/o cognitive – ha concluso il dott. Bo – non hanno nessun beneficio riducendo la P.A., i pazienti con una buona integrità fisica e cognitiva, hanno probabilmente un beneficio importante nella riduzione dei valori pressori. I benefici di una terapia anti ipertensiva richiedono anni prima di vederne gli effetti, ma quelli collaterali sono quasi immediati sin dalla prima dose. Inoltre, tutti i dati dimostrano che la riduzione di mortalità veniva ottenuta negli studi in cui l’abbassamento pressorio era lento e graduale».

Non meno importante l’argomento dedicato alla ghiandola tiroidea, soprattutto quando vi è necessità di un trattamento chirurgico. Anche se in realtà la maggior parte delle tiroidi funzionano bene, bisogna considerare che in taluni casi possono essere candidate alla chirurgia. Ma cos’è la tiroide? È una ghiandola endocrina che produce degli ormoni tiroidei e li invia nel circolo sanguigno. È a forma di farfalla ed è costituita da due lobi (sinistro e destro) uniti da una congiunzione detta istmo tiroideo che sta di fronte alla trachea. «La tiroide – ha ricordato la dott.ssa Caracciolo (nella foto) – è molto vascolarizzata, dietro alla quale sono posizionate quattro piccole ghiandole dette paratiroidi, che producono il paratormone (PTH), un ormone prodotto appunto dalle stesse e il suo ruolo importante consiste nel controllo dei valori del calcio all’interno dell’organismo e nel rimodellamento osseo, che è un processo continuo in cui il tessuto osseo viene alternativamente riassorbito e ricostruito nel tempo. Quindi, la tiroide produce gli ormoni tiroidei (in sigla T3 e T4), ed è “controllata” dal TSH, l’ ormone che tra l’altro influenza direttamente l’attività della tiroide stessa, favorisce l’assorbimento dello iodio e la liberazione degli ormoni (T3 e T4), fondamentali per tutto l’organismo in quanto regolano il metabolismo (la temperatura corporea, l’aumento o la riduzione del peso, e nelle donne sono altrettanto fondamentali in gravidanza per lo sviluppo dell’embrione e del feto». Nei disordini di questa ghiandola in merito alla sua funzione si parla di iper o di ipo tiroidismo, ossia quando c’è una riduzione degli ormoni tiroidei o l’aumento della produzione degli stessi. Nell’ipertiroidismo il paziente avrà una perdita di peso, tachicardia, sudorazione, ansia, problemi cutanei, etc.; nell’ipotiroidismo invece vi è l’aumento di peso, affaticamento, etc. Il medico di famiglia predisporrà il dosaggio degli ormoni tiroidei e il TSH per verificare la funzione della ghiandola. «Il problema – ha precisato il clinico – si presenta quando la tiroide evidenzia  problemi a livello strutturale come la formazione del gozzo (struma tiroideo), ossia aumento del volume soprattutto all’esterno, oppure quando compaiono dei noduli (singoli o multipli) riscontrabili visivamente o alla palpazione, oppure con l’esame ecografico. I noduli tiroidei sono molto frequenti: il 5% delle donne e l’1% negli uomini hanno una diagnosi di uno o più noduli, e spesso sono asintomatici; ma a volte danno sintomi come rigonfiamento del collo, dolore, voce alterata, problemi respiratori (per compressione della trachea), e difficoltà nella deglutizione». Il medico di famiglia è il primo riferimento per una iniziale valutazione, e quindi in grado di predisporre accertamenti come la prescrizione di una ecografia alla tiroide, che può evidenziare la presenza di noduli, e per conoscerne la natura solitamente lo specialista (solitamente l’endocrinologo) può procedere con l’ago aspirato (peraltro non sempre necessario) per prelevare le cellule, e quindi farle analizzare dall’anatomopatologo. In presenza di un tumore della tiroide  l’importanza dello stesso è data dal grado e, in caso di malignità, interviene il chirurgo con ottimi risultati in quanto il tasso di sopravvivenza e relativa guarigione è del 95% dei casi. «Tali tumori – ha precisato la dott.ssa Caracciolo – si riscontrano soprattutto nelle donne, e la percentuale degli stessi è in aumento (all’ospedale Mauriziano si operano circa 400 pazienti all’anno, di cui la metà per tumore alla tiroide. L’età della diagnosi mediamente è tra i 40 a i 50 anni, e la patologia tumorale più frequente è il carcinoma papillifero. I fattori di rischio sono da individuarsi nella famigliarità, tiroidite cronica, fattori ambientali e carenza di iodio. In caso di asportazione totale della tiroide il paziente dovrà assumere la terapia ormonale sostitutiva per tutta la vita». Dal punto di vista della prevenzione è utile l’ecografia al primo sospetto o disturbo, specie se in presenza di una alterazione del valore TSH, l’autopalpazione per individuare la presenza di eventuali noduli. Ulteriormente utile controllare il valore della calcitonina nel sangue.

Foto a cura di Giovanni Bresciani

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *