Riflessioni dedicate ad un amico: Andrea Carrano

 

 

 

Ci hanno scritto:

Gentile Francesca, non ho reperito ancora nel giornale questo genere di
riflessione, ma la devo ad un amico

Emanuela Verderosa

E noi lo dobbiamo a lei, ad Andrea e a tutti quelli che ci aiutano a sperare qualunque sia la situazione o il momento che stiamo vivendo.  Oltre la morte che ghermisce all’improvviso chi amiamo…Grazie, Emanuela per la sua toccante riflessione.

Ho conosciuto Andrea come collega di lavoro, anni fa, in Medicina Nucleare a Latina; ricordo bene che tentammo in ogni modo di dissuaderlo dal trasferimento pur dinanzi alle condivisibilissime motivazioni di vicinanza alla sua famiglia. E ne avevamo ben ragione!  Andrea si era rivelato un collega ed amico  con il quale condividere positivamente gli impegni lavorativi quotidiani. Mi ha sempre colpito il suo sereno equilibrio nelle relazioni umane, la capacità di minimizzare e stemperare i motivi di tensione. E la competenza professionale era densa di attenzione personale  al malato. Il tratto dominante della sua personalità è stata la disponibilità; disponibilità che andava ben oltre le esigenze interne al servizio; moltissimi colleghi hanno apprezzato e beneficiato del suo impegno per le iniziative ed il lavoro del Collegio.
Mi piace molto e condivido pienamente il tratteggio scarno e  pertinente che di lui ha fatto il mio amico e presidente di collegio Vincenzo Bonetti: Andrea è stata una persona umile, onesta, pulita … Come comprendo ora, ancora di più, il suo accorato parlare  dell’amico che ha perduto, del collaboratore affidabile che gli è stato sottratto …

Un infarto lo ha stroncato. Inaspettatamente.
 L’assenza ci ha sorpresi come un furto. E fa sentire il suo peso.  Come quando una carovana che va, inaspettatamente si sfoltisce. E si è disorientati. E si è sgomenti. Per una sorte che ininterrottamente si ripete, ma che ogni volta è irripetibilmente nuova.
Che cosa pensare?  Si può argomentare di fronte alla morte? La morte sfugge ai nostri criteri giustificativi. Esiste. Come esiste la vita. Ed è tutto. Il suo senso?
Non ha più nulla da dire ai morti. Non più. Ma ha molto da dire ai vivi. A noi. Essa è provocazione. È  riproposizione di una sfida a discernere il senso della nostra presenza qui ed ora. A confrontarci con priorità disattese, con qualità di scelte mancate. Una per tutte, almeno per me: meno cose da fare e più spazio all’ascolto e al dono. Più sapienza per le cose essenziali. Più spazio per ciò che alimenta il senso profondo della vita! Ora! Perché a questo ci è donata la morte: a raddrizzare la vita. A dare spessore alla vita. A saturarla di senso. Perché la vita è anzitutto impegno e dovere. E Andrea  ce lo ricorda. Non aveva bandiere. Non ostentava ideali e progetti. Ma ha adempiuto la sua primaria vocazione: ha vissuto il suo impegno umano e professionale con responsabilità. E con amore. Ovunque. Nel suo ambiente di lavoro. Nei confronti dei suoi doveri famigliari. Verso i suoi amici e colleghi. Sempre.
Ha condiviso con noi ciò che era. Ha percorso un tratto della sua  esistenza con noi. Così, semplicemente. Da compagno di viaggio.  È stato un dono per noi. E ci ricorda la preziosità e la singolarità del dono. Di ogni dono. Della possibilità e della bellezza di essere noi, ognuno di noi, dono e stimolo l’un l’altro. Perché, al di là di tutto, è la meta a cui siamo chiamati. Ed è ciò che veramente conta.
Sembra un dato banale e scontato, ma non lo è: coloro che ci sono a fianco, nel bene o nel meno bene, in maniera misteriosa ma vera, spesso in forma inconsapevole, quasi sempre in maniera impercettibile, ci hanno regalato un tassello per la nostra crescita umana e spirituale.  E noi a loro. Siamo più vicini l’uno all’altro di quanto possiamo pensare. Siamo più responsabili l’uno dell’altro di quanto possiamo immaginare. E questo per sempre.
È  un pensiero che dà le vertigini. Ma quanto è vero. Al punto che la chiave di comprensione di noi stessi è negli altri. Accogliersi, è consegnarsi le chiavi. È comprendere. È scoprire il vero di noi.
Come cultura occidentale e come comunità umana, attraversiamo una dura parabola di progressiva desertificazione dei valori umani. L’offuscamento delle conquiste delle spirito che hanno arricchito,  dilatato ed insaporito gli orizzonti umani delle persone, sono temibilmente spinti all’angolo, ibernati come mammuth. Va in auge un modello umano artificiale, culturalmente rimpinzato e validato da tests impersonali e, spesso, insulsi; sovraccarico di griffe; saturo di stimoli come il traffico nell’ora di punta; sommerso da immagini e mode fino all’asfissia della fantasia; gonfiato fino all’eccesso da fatue aspettative. Un modello umano cui è deficitario il linguaggio fondamentale della convivenza civile, ossia: lo spessore sapido dell’umanità accogliente e solidale. I nostri ambienti di lavoro, gli ospedali, diventano  il test quotidiano di questo moderno e progressivo  imbarbarimento perché  è da lì  che la richiesta di ricchezza umana, oltre che professionale, assume valenza drammatica ed urgente. Non lasciamoci sommergere.
  Non ci manchino mai delle persone come Andrea che, silenziosamente e tenacemente, hanno tenuto desto questo imprescindibile dovere verso la vita.
 Verso noi stessi. E verso ogni  nostro simile.
Io sono credente. Un istinto radicale ed una fede accolta mi assicurano che la morte non è l’ultima parola a chiusura dell’avventura umana. Nulla di ciò che siamo e di ciò che abbiamo fatto di noi va perduto. È il mistero e il  paradosso dell’esistenza che ci è data: estrema vulnerabilità, insopprimibile nostalgia di infinito e di felicità. Dio distrugge la nostra morte. Con amore tenere ed infinito spezza i nostri limiti e ci rende disponibili per l’infinita libertà. Per l’infinita bellezza. Per l’infinita gioia.
Così è stato per Cristo! E così è per noi. Per tutte le creature che Egli ama.
Così per il mio amico Andrea.
                                                                       Emanuela Verderosa

 

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