RIEVOCAZIONE TEMATICA DEDICATA A CHI È PREPOSTO A GIUDICARE, SENTENZIARE, DIFENDERE…

di Ernesto Bodini (giornalista scientifico)

Forse non tutti recepiscono il fatto che di tanto in tanto è bene “rispolverare” quanto si è detto in pubblico, specie se gli argomenti rispecchiano l’attualità in modo irreversibile, e raggiungere così tutte le coscienze… Tra questi una mia relazione tenuta alcuni anni fa ad una tavola rotonda per un congresso internazionale di Criminologia e Psichiatria, organizzato dall’allora Scuola di Alta Formazione in Scienze Criminologiche e Investigative (CRINVE 2010), durato tre giorni. Il tema era “Riflessione: De iure condendo – Ammissibilità della perizia criminologica in sede processuale”; ovvero, una unanime riflessione sulla opportunità di mantenere il divieto della cosiddetta perizia criminologica (ex art. 220 CPP), in merito alla quale il mio contributo è stato accolto per aver individuato nell’attualità del problema la non corretta definizione del possibile beneficio alla introduzione. Con l’intento di rammentare proprio l’attualità di tale argomento, almeno sotto alcuni aspetti, espongo uno stralcio del mio intervento la cui integrità risulta agli atti del congresso. Ogni qualvolta si presentano problemi di carattere giudiziario siamo tutti coinvolti da una emotività pericolosa e fuorviante. Se non colposa. E come tutti sappiamo, la legge è sempre scritta ed è interpretata da persone (giudici e principi del Foro) provenienti da Scuole di pensiero diverse, e diverse le loro letture con il conseguente margine di “discrezionalità” per stabilire la pericolosità sociale, o meno, di una persona. Ma proprio perché le persone non sono uguali nella psiche e negli intenti, maggiori devono essere l’impegno e la responsabilità di chi è preposto a valutare, giudicare e sentenziare: giudici, giurie, medici-psichiatri, psicologi clinici, criminologi. Queste figure, come ci viene insegnato, che si accingono a “modificare” il destino di una persona, devono essere anzitutto coscienti dei propri limiti e quindi dei propri possibili errori. «Un errore giudiziario – scriveva negli anni ’50 il giudice e scrittore Domenico Riccardo Peretti Griva (Torino 1882-1962) – rappresenta l’angoscia del magistrato, soprattutto quando investe la libertà della persona… L’errore giudiziario è un vero tarlo nella coscienza dei giudici per bene». E a questo proposito c’è una ricca rassegna stampa che riporta numerosi e clamorosi errori giudiziari che hanno determinato in modo traumatico e quasi sempre irreparabile, secondo un’indagine di alcuni anni fa dell’Eurispes, il destino di circa 4 milioni di persone in oltre mezzo secolo di Repubblica. Sono trascorsi anni ma gli eventi si sono a dir poco moltiplicati, tant’è che vorrei ricordare ancora una volta le “illuminanti” pubblicazioni editoriali di Agostino Viviani (1911-2009), un noto principe del Foro milanese, che diede alle stampe nel 1988 “La degenerazione del processo penale in Italia”, testimonianza della sua esperienza di penalista, in cui commenta una serie di casi di “ordinaria ingiustizia; nel 1989 “Il Nuovo Codice di Procedura Penale. Una riforma tradita”, con cui dimostrava che la riforma, nonostante l’affermazione di alcuni validi principi, non riusciva ad abolire il sistema inquisitorio a favore di quello accusatorio; e nel 1991 “La chiamata di correo in Giurisprudenza”, con l’intento di seguire l’evoluzione (o l’involuzione?) del concetto di chiamata di correo fino all’entrata in vigore del nuovo Codice, per poi raffrontarla con la nuova regolamentazione e trarne le conseguenze della necessaria prudenza nella valutazione della parola del socius criminis… I giudici dovrebbero permettere una lunga disamina su come devono essere utilizzate, ad esempio, le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia (e dei pentiti); in pratica non basta che dicano cose coerenti e che si confermino tra di loro, ci vuole anche un riscontro, qualche cosa che somigli ad una prova… proprio per evitare sentenze e condanne che poi si riveleranno ingiuste… Tutto ciò proprio per evidenziare che figure professionali preposte alla “difesa o all’accusa” non sono esenti da giudizi che implicano, sia pur nel rispetto delle reciproche competenze ed esperienze, la valutazione della personalità dell’individuo, o presunto tale. Va da sé che le considerazioni in merito non hanno confini, ma il mio vuole essere il “richiamo” di semplice cittadino e di divulgatore delle problematiche sociali (oltre che medico-scientifiche), e volto ai diritti fondamentali della Persona, ossia quelli che ne assicurano lo sviluppo della personalità e l’espressione della stessa… È dall’Illuminismo in poi, in sintesi, che si va affermando il principio della libertà e dell’uguaglianza di tutti gli uomini. Un progresso sociale, la parità di tutti i cittadini di fronte alla legge, che Voltaire e Montesquieu hanno cercato di far vedere. Il Movimento riformatore di Beccaria, la cui opera “Dei delitti e delle pene” influenzerà già nel secolo XVIII le riforme delle legislazioni penali di numerosi Stati, italiani ed europei, si fondava sui concetti di dignità umana e certezza del diritto, precisando che il criminale è un individuo dotato di assoluto libero arbitrio, capace di autodeterminarsi, non condizionato da influenze socio-ambientali, né da proprie motivazioni psicologiche…

Addentrandomi più direttamente sul tema della tavola rotonda ho richiamato il termine Personalità, che si riferisce a patter stabili del pensiero, emozione, motivazione e comportamento che si attivano in circostanze particolari. Definizione, questa, che la maggior parte degli psicologi potrebbe accettare nonostante la notevole diversità delle teorie, proprio perché molti aspetti della personalità sono attivati da situazioni, pensieri o sentimenti specifici… All’occhio e all’orecchio dell’opinione pubblica la figura del criminologo in questi anni è stata un po’ distorta, soprattutto dalla diffusione di serie televisive dedicate all’argomento che, in più occasioni, hanno prodotto la distorsione della realtà. Ed è bene far chiarezza sul ruolo della Criminologia e degli autori, ma anche delle vittime, dei tipi di condotta criminale e delle forme possibili di controllo e prevenzione. E poiché nel nostro Paese non esiste né la professione di criminologo né un Ordine dei Criminologi, credo sia prudente, mettere in discussione l’ammissibilità della perizia criminologica in sede processuale, soprattutto quando si tratta di giudicare la personalità del reo o presunto tale… Quindi il riferimento è all’ex art. 220 comma 2 del CPP che precisa: «Salvo quanto previsto ai fini dell’esecuzione della pena o della misura di sicurezza non sono ammesse perizie per stabilire l’abitualità o la professionalità nel reato, la tendenza a delinquere, il carattere e la personalità dell’imputato e in genere le qualità psichiche indipendenti da cause patologiche». Tralasciando alcuni riferimenti a Gramsci e a Lombroso, ho posto l’attenzione sulla responsabilità dei mass media in quanto il crimine, compresi autori, località e relativi contesti socio-ambientali, costituiscono per loro uno “sviscerato” interesse, in particolare dei cronisti di nera e giudiziaria, i cui prodotti non di rado sono intrisi di enfasi e ridondante esasperazione sino a creare un impatto mediatico (soprattutto attraverso le immagini) non certo salutare, a mio dire, per la società, peraltro già “turbata” da altri problemi… esistenziali. Rammento che nell’ambito del giornalismo (soprattutto di cronaca nera e giudiziaria) corre un vecchio detto: «Gli errori dei magistrati finiscono in carcere, gli errori dei medici finiscono sottoterra, gli errori dei giornalisti finiscono in prima pagina». Affermazioni che inducono a considerare che essere giornalisti, oltre a chi è preposto a valutare, indagare, diagnosticare, giudicare, difendere, tutelare (politici compresi), comporta una notevole responsabilità proprio perché chi divulga ha sì il diritto-dovere di informare, ma deve nel contempo rispettare la verità dei fatti, tutelare la personalità e la dignità altrui. L’approccio morboso verso ciò che è macabro o truculento è favorito da quello che si può definire overtaking, ossia la speculazione dell’informazione che va oltre la notizia… (Un approccio, aggiungo ora, che interessa anche le nuove generazioni il cui stimolo le orienta a frequentare corsi e master in Criminologia; ma va precisato che in Italia, così come in Europa, il “criminologo” non è una professione riconosciuta, nel senso che non esiste una professione autonoma con un proprio Ordine professionale e indipendente come per i medici, gli psicologi, gli ingegneri, i farmacisti, gli avvocati, i notai, etc.; e né esiste la Criminologia come specializzazione distinta per alcuni professionisti).

E proprio perché la tavola rotonda si basava sul concetto De iure condendo, in merito al diritto relativo all’ex articolo (220 CPP) ho ritenuto opportuna la mia esposizione (mi si perdoni se questa è una sintesi), non solo per l’invito ma anche nella veste di libero cittadino che rispetta le leggi e le contesta (democraticamente) se sono mal interpretate o mal applicate, e di divulgatore a stretto contatto con le problematiche sociali, anche relative al rispetto della dignità del detenuto. In particolare, come cittadino impegnato nel sociale soprattutto aiutando i più “deboli” e “sprovveduti” nel superare le irte salite della interminabile burocrazia con semplici “consulenze” scritte e verbali, più volte mi sono chiesto (e mi chiedo ancora oggi): «Ma veramente la Legge è uguale per tutti, come è evidenziato in ogni aula di tribunale?». Per rispondere… serenamente a questo ancestrale quesito, me ne sono posto (e me ne pongo) un altro: «In quali casi la Legge NON è uguale per tutti?». Forse, aggiungevo, per combattere le ingiustizie e per soddisfare al meglio le esigenze dei cittadini, sarebbe auspicabile quanto sosteneva l’avvocato statunitense Clarence Darrow (1857-1938): «Le leggi dovrebbero essere come gli abiti: dovrebbero adattarsi perfettamente alle persone per le quali sono state fatte». Ho così voluto alludere in qualche modo alla saggezza che dovrebbe essere “padrona” delle nostre, spesso incontrollate pulsioni. Saggezza che mi ha suggerito di citare un breve aneddoto rievocando Socrate il quale, come è noto, fu giudicato da una giuria di 501 cittadini, e condannato a morte con soli 60 voti di maggioranza; e non volle mai mettersi in salvo pur avendone avuta l’occasione durante l’anno di prigionia. Quando Santippe, la moglie di Socrate, comunicò in lacrime al marito che i giudici lo avevano condannato a morte, il filosofo commentò semplicemente: «Pensa che essi sono condannati dalla Natura!» – «Ma ti hanno condannato ingiustamente»” – singhiozzò la donna. «Avresti preferito che la condanna fosse giusta?», replicò Socrate. Concludevo così la mia esposizione, citando inoltre i versi “Prima di tutto l’Uomo” del poeta turco Nazim Hikmet, come ultima lettera dedicata al figlio; ma anche lasciando ad intendere che nessuno dei nostri connazionali detenuti innocenti veste (o vestirebbe) i panni dello “stoico” Socrate e, per questo, è bene che coloro che sono deputati ad indagare, periziare, giudicare e a sentenziare, devono possedere la piena coscienza di sé… per non essere a loro volta giudicati…!

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