Raccontonweb: “Ricordi depositati” di Marcella Onnis

Oggi è la Festa della mamma e questo racconto vuole essere un modo per fare i nostri auguri alle festeggiate.
Ricordi depositati
Passava per strada, la solita strada, quando lo notò: un … deposito di mobili vecchi e usati? O un negozio di antiquariato un po’ arrangiato? L’aspetto era quello di un garage rimesso a nuovo – intonacato e dipinto di fresco, di fuori e di dentro – e riempito di sedie, poltrone, comò, comodini, cassepanche, cassettiere…
Spuntato lì come un fungo, che gli risultasse. Perlomeno, gli sembrava davvero improbabile che una simile bizzarria gli fosse finora sfuggita.
Fermarsi fu un moto involontario del suo corpo, un imperativo categorico della sua anima, se mai avesse creduto alla sua esistenza. Per prima cosa poggiò lo sguardo – e un attimo dopo la mano – su una vecchia poltrona: legno scuro e tessuto rossastro, non eccessivamente sbiadito né consumato, anche se senz’altro impregnato di polvere. E di peso, gli venne automatico aggiungere. Si immaginò, infatti, chissà poi con quale diritto, che avesse retto per interi pomeriggi chiappe generose, sovrastate da un tronco femminile corpulento, avvolto in trine e coronato da una bionda cascata di boccoli. Scacciò infastidito il pensiero di quella mole flaccida e si spostò verso un bel canapé rivestito d’oro damascato. Immaginarne il passato, in questo caso, fu fin troppo facile e ci provò anche a non cadere nel cliché (un cugino che seduce la cugina? un prete indotto in tentazione da una giovane e ricca vedova allegra?) ma qualunque possibile immagine gli parve un film già visto e passò oltre.
Lì accanto sostava un bel comò, di quelli antichi con stipetti e vani portagioielli. La vide subito, nel “ricordo”, la serie di cornici d’argento sul ripiano superiore: la donna da bambina, la donna da ragazza, la donna da donna, poi più nessuno scatto ché vedersi vecchia le metteva tristezza. Per questo fece levare pure lo specchio enorme che lo sovrastava e che, non a caso, vanta oggi una cornice lignea ben più dignitosa del suo compagno. Se la immaginò, la donna, anziana, sola e depressa, persa nei ricordi dei tempi gloriosi, a rimpiangere la bellezza sfiorita, il fidanzato non sposato (morto in guerra? non gradito ai genitori? pentitosi alla vigilia del matrimonio, magari conquistato da forme meno aggraziate ma più appassionate e appassionanti?), i figli mai avuti… “Oggi avrei potuto essere nonna…” la sentì sussurrare tra le lacrime che non riusciva neanche più a versare.
Per rispetto e pudore girò lo sguardo da un’altra parte e così incrociò un portaombrelli in ferro battuto, molto sobrio e per questo di gran classe. Vi stava infilato non un parapioggia, ma un bastone da passeggio, chiaro e interamente intarsiato. Bellissimo. Niente a che vedere con lo spartano pezzo ricurvo di legno che usava suo padre, eppure lo rivide comunque davanti a sé: giacca scura e sotto panciotto in tinta, da cui sbucava la catena dell’immancabile orologio da taschino, quello che aveva ereditato e che, ancora oggi, si portava sempre appresso. Panciotto, bastone, baffetti e bombetta: una caricatura goffa di Charlot poteva sembrare suo padre. Ma a nessuno, burbero com’era, aveva forse mai fatto ridere. A quel pensiero, però, l’angolo destro delle labbra sfuggì al suo controllo e si curvò all’insù, producendo sul suo volto un mezzo sorriso amaro.
Più dolce fu, invece, la vista di uno scrittoio di legno chiaro. Ecco il vano per il calamaio! E queste?! Inconfondibili macchie di inchiostro. Imbranato scribacchino! Ché di donna non si poteva trattare: avrebbe saputo di certo come levarle, quelle macchie. Vi immaginò adagiati un bel mazzo di fogli giallognoli, un’elegante penna stilografica nera e un tampone di carta assorbente (pasticcione com’era, chissà quante e quante volte vi avrà fatto ricorso). Cosa mai poteva aver scritto quel giovanotto? Lettere d’amore, non c’era dubbio. Di certo, se la cavava meglio con le parole che con i fatti. Fantasie ardite da consegnare alla sua bella, di cui amava il sorriso carpito durante la Santa Messa domenicale, ma ignorava ancora il temperamento instabile e l’inclinazione al despotismo. Facile immaginare l’incendio del ventre di lui propagarsi al ventre di lei. Quasi ovvio vedere lei correre subito dopo a confessarsi, con grande turbamento del suo confessore. Se e come ognuno poi spegnesse codesto fuoco, preferì, però, non domandarselo.
Davanti a sé aveva anche una sedia, ancora solida nonostante la vistosa firma dei tarli. La seduta era morbida e ricoperta di un tessuto verde bottiglia, scucito ai bordi. Qui si immaginava una madre intenta a ricamare, anzi no, a lavorare la lana con i ferri. Per farvi cosa? Calze da notte, di quelle che gli confezionava la sua, di madre. Forse da qualche parte ne conservava ancora un paio, rigorosamente infeltrite e zeppe di pallini duri e minuscoli, ormai impossibili da levare. Accarezzò e riaccarezzò i braccioli della sedia come se fossero le mani di sua madre, di cui ricordava ancora gli odori: a volte varecchina, a volte limone (che le restava impregnato sotto le unghie dopo averne grattugiato la scorza per i dolci), a volte aglio, a volte … no, sempre, il suo odore, quello della sua pelle, che descrivere – quanto dimenticare – non era possibile.
«Signore! Signore, si sente bene?»
«Come, prego?»
«Si sente bene? … Scusi, mi era sembrato avesse avuto un mancamento.»
«Ah, sì… In effetti, ho avuto un capogiro, ma è passato, grazie.»
Si lisciò la giacca tanto per darsi un contegno, mentre la ragazza continuò a osservarlo, sorridendo apprensiva.
«Grazie Signorina, Lei è davvero molto gentile. Arrivederci.»
Marcella Onnis