RaccontOnWeb: “Esistenze perdute” di Antonino Giuffrida – 2^ parte

orsacchiotto

Esistenze perdute

(segue)

Mi presentai come nuovo insegnante di storia e letteratura e dissi loro di prendere carta e penna per farmi un’idea sul livello generale della classe: avrebbero dovuto scrivere mezza paginetta su un argomento a piacere. Ma, dopo averli esortati a iniziare, alcuni presero a brontolare con tono monotono e lagnoso; altri, invece, a protestare apertamente, come Anna, una ragazzina dagli occhi azzurri e i capelli biondi, che lamentava il fatto che nessuno, prima di me, li avesse fatti esercitare nella scrittura a tema libero. «Ci è sempre stato detto: “Scrivi su questo, scrivi su quello”. Io e miei compagni vogliamo una traccia, se proprio ci vuole valutare. Altrimenti, niente».

Dapprima, vuoi per lo stupore vuoi per lo sconcerto, non riuscii a ribatterle niente. D’altra parte io, i ragazzini, me li ricordavo diversamente. Ai miei tempi, tremavamo tutti al solo ingresso in aula del “maestro” o del “professore” di turno, il quale, se durante gli incontri scuola-famiglia avesse raccontato ai nostri genitori che ci eravamo comportati male, magari rispondendogli a tono o trascurando i nostri doveri scolastici, ci avrebbe fatto passare, per mano soprattutto dei nostri padri inviperiti, giorni o anche settimane di puro terrore, finché non avessimo capito, insieme al rispetto dei ruoli, l’importanza della disciplina.

orsacchiottoAnna, nel frattempo, mi scrutava dal basso verso l’alto con i suoi occhi fieri e grintosi, i quali, come piccoli soli che irrompono in un grande spazio buio, brillavano lì dentro di una luce talmente intensa da spingermi a staccare a un tratto il suo sguardo dal suo. Alla fine, rassicurai sia lei che gli altri. Dissi loro infatti che, se volevano, potevano anche consegnare in bianco, perché, comunque, li avrei valutati man mano, nelle settimane successive. E così fecero. Eccetto uno, però: il ragazzino “problematico”. Questi, cautamente, si era avvicinato alla mia cattedra e mi aveva consegnato, in un mezzo sorriso di timidezza, un foglietto con su scritto queste poche righe sconnesse e sgrammaticate:

Più piano, o paura, più piano, o paura. I miei genitori dove sono… dove sono… grida, grida, ferma, ferma, il mio orsacciotto lo stringo forte forte, almeno tu non mi lasciare… aiuto, aiuto.         

Benché non avessi capito cosa volesse dire con quelle parole e benché non avesse scritto in modo corretto, decisi comunque di lodarne lo sforzo davanti alla classe. A un orecchio gli sussurrai che doveva soltanto migliorare nella grammatica. Poi gli sorrisi e gli chiesi come si chiamava. Lui non mi rispose, e anzi, mentre sul suo viso bianco come il latte si dipingeva un’evidente espressione di disagio, cercò di filare quatto quatto al suo banco. Io, per impedirglielo, lo afferrai per una manica del suo maglione di lana, sfiorandogli così la mano sinistra: gelida, impalpabile, come incorporea.  Un brivido risalì subito per la mia schiena e mi parve quasi di essere catapultato in un’altra dimensione. Lui, allora, si divincolò e tornò a sedere al suo posto.

Quando suonò la campanella, i ragazzini fecero un gran chiasso per uscire dalla classe. Io tentai di tenerli a bada, quindi li accompagnai fuori, dove c’era già un autobus giallo ad attenderli. All’improvviso, si misero tutti a piangere, gridando di non volerci entrare; al che, il conducente, rosso in volto come un tacchino, imprecò qualcosa nel suo vernacolo e accelerò sgommando e slittando lungo il sentiero alberato, sino a sparire nel nulla. A quel punto, alle mie spalle sentii la presenza di qualcuno. Era il preside.

«Ma ha visto quell’idiota?» gli chiesi sbigottito. «Ora come torneranno a casa queste povere creature?».

«Vedrà che ci torneranno» rispose serafico quello. «Vedrà che ci torneranno».

Dopodiché mi voltai e non vidi più i ragazzini, come risucchiati dalle ombre dei cipressi circostanti. Cantucci notò il mio stupore, ma non chiarì i miei dubbi. Mi invitò solo a prendere le mie cose per metterci in viaggio al più presto in modo da tornare alla sua abitazione prima che facesse buio. E lì, d’autunno, faceva buio sempre molto presto, aggiunse con un altro dei suoi sorrisi indecifrabili.

In macchina, ero teso come l’elastico di una fionda e, per evitare lo sguardo del preside, sempre più misterioso e inquietante, avevo preso a guardare fuori dal finestrino.

Quello fu uno dei viaggi più lunghi della mia vita.

Arrivammo a casa solo verso le diciannove e trenta.

«Io vado a farmi una doccia» mi disse Cantucci. «Dopo le farò un risotto coi funghi che nemmeno si immagina!».

Rimasto solo in cucina, iniziai a pensare che, forse, le stranezze a cui avevo assistito dentro e fuori della mia classe non fossero in realtà che il frutto del mio turbamento e della mia stanchezza. In fin dei conti, era pur sempre stato il mio primo giorno di lavoro. Magari, mi dissi, cose di questo genere succedono un po’ a tutti quando, dopo tanti sforzi, si è riusciti finalmente a realizzare un sogno. Questo mio arrovellamento mentale, il quale, non senza contraddirsi, cercava di razionalizzare fatti ed eventi che razionali non erano, dovette però interrompersi alla lettura della prima pagina di un giornale, risalente a due anni prima. Essa era stata affissa sul frigo, a cui ero giunto per bere dell’acqua.  Vi era scritto:

Tragedia nel bolzanese, autobus si schianta contro un albero: morti 11 ragazzini di età compresa tra gli undici e i dodici anni. Nell’incidente sono deceduti anche il loro preside, che li aveva accompagnati in gita, e il conducente, probabilmente in stato di ubriachezza. Una delle giovani vittime stringeva ancora il proprio peluche tra le mani.

La foto che accompagnava l’articolo non mi lasciava dubbi sulle identità delle vittime. Proprio in quel momento, il preside Cantucci mi soprese alle spalle con queste parole:

«Brutta storia, eh?».

Scossi la testa e mi ripetei ad alta voce che stavo semplicemente sognando.

Era un incubo, non poteva che essere un incubo. Mi avviai per il corridoio con l’intenzione di tornamene in Sicilia. Ma, prima che aprissi la porta d’ingresso, il preside mi urlò: «Ma dove vuole andare? Il suo posto è qui con i ragazzi, è qui, mi creda».

Lo lasciai senza una risposta e, correndo, tornai alla Bahnhof Bozen. Lì presi il primo treno disponibile.

Arrivato alla stazione di Messina, mi sedetti infine su una panchina. Poco distanti da me, due signori – uno coi baffi, l’altro senza baffi – avevano cominciato a parlare tra loro:

«Ma hai sentito di quel pazzo che si è suicidato qui lo scorso 18 novembre gettandosi sotto un treno?» disse quello coi baffi.

«Sì, era un insegnante precario, dicono. Ho saputo che aveva mandato “la messa a disposizione” nelle scuole di Bolzano. Poveraccio, pace all’anima sua» rispose quello senza baffi, come se se ne dispiacesse davvero.

Quando il cielo cominciò ad annuvolarsi, i due si allontanarono dalla mia panchina. Fu in quel preciso momento che io sentii fischiare un treno in corsa. Mi alzai e, dopo qualche passo, mi fermai sulla linea gialla. Ricordai ogni cosa. Intanto, una mano, dal basso, mi tirava più volte per la giacca; apparteneva al ragazzino “problematico”:

«Maestro… maestro… se ora ti dico il mio nome, tu mi insegni la grammatica?».

Dietro di lui c’era il preside Cantucci; mi sorrideva come in un’espressione d’intesa.

Antonino Giuffrida
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