QuanteStorie: “Maria Grazia” (audioracconto)

 

Con nostro e ci auguriamo anche vostro grande piacere,

ritornano oggi sulle nostre pagine Gaetano Marino e i suoi audioracconti.

Ritornano in compagnia del nostro “maestro del racconto web”, Fulvio Musso,

e di uno dei suoi non frequenti brani autobiografici.

 

 

 

 

 

Non l’ho mai raccontato, ma ho un ricordo molto bello, uno dei pochi di famiglia, e mi piace l’idea di parteciparlo agli amici.
Avevo si e no sedici anni, da poco uscito di collegio, buttato fuori per indisciplina, cioè una grandissima, irripetibile botta di culo.
Una signora della “San Vincenzo” (indimenticata Ada S.) mi evitò il riformatorio cui m’aveva destinato il molto reverendo monsignore che avevo mandato affanculo (all’epoca, era cosa più grave che pisciare sulla bandiera) e mi rimediò una pensione per dormire oltre un’occupazione come fattorino a consegnare pacchi in… triciclo (!)

Dopo alcune settimane di feroce risparmio, salii su di un treno alla Centrale di Milano, destinazione Fano, nelle Marche. Si lavorava sei giorni la settimana e, per poter disporre della domenica, viaggiai la notte. Ero in terza classe, seduto con altri cinque s’un sedile per quattro, spiaccicato a una trippona che soffiava come un mantice.
Andavo in visita a mia sorella, più grande di me, ma con un anno ancora da smaltire in un istituto per orfani di maestre.
Non ci vedevamo da anni e forse ero il primo parente che andava a trovarla. Beh, per non farla lunga, con malcelato orgoglio la “presi in consegna” nel parlatorio del collegio, previo predicozzo di una qualche direttrice, e la “portai” al cinema a vedere “Fronte del porto” con Marlon Brando, uscito proprio in quel periodo. Poi finimmo a rimpinzarci di paste in un bar pasticceria, seduti al tavolino come due signori veri, davanti a un mare di cartone com’è l’Adriatico d’inverno e senza sapere bene cosa dirci, in quel nuovo gioco a fare i grandi. Avevo i soldi contati alla lira, ma per fortuna, anche il biglietto col ritorno pagato.
Tutto questo durò un attimo e mentre la riaccompagnavo al collegio, lei si fermò a un angolo di strada:
«Mi fanno male le scarpe», lamentò, «aspetta un momento».
Mi sembrava normale… in prestito pure quelle… «Non ho molto tempo per il treno», l’avvisai.
Comunque aspettai, ma lei non si decideva. «Ora dobbiamo andare, non posso rischiare».
E finalmente sbucò, da dietro l’angolo, una lunga teoria di divise azzurre con dentro altrettante ragazze in fila per due, ben allineate, che rientravano dal passeggio domenicale. I visetti, seri o sorridenti, tutti rivolti verso noi due.
Mia sorella era radiosa. Forse, troppe volte s’era vergognata del fatto che nessuno andasse a trovarla. Oppure, conoscendola, il suo era soltanto orgoglio e amore fraterno: aveva voluto che tutte, tutte le sue compagne di collegio, vedessero suo fratello.

 

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