Quando la psiche entra in famiglia…

Molteplici le cause dell’infanticidio e neonaticidio. Un fenomeno sociale che si può prevenire, ma dovrebbe essere anche la società un po’ meno “indifferente”, e i mass media più attenti nel divulgare.

 

Secondo il racconto mitologico Ino, la sposa di Atamante, gettò il figlioletto Melicerte in un paiolo di acqua bollente e si lanciò poi in mare stringendo fra le braccia il suo cadaverino. Un esempio che purtroppo non è solo mitologia ma rispecchia sempre più la nostra realtà attuale, tant’è che la cronaca non ci risparmia fatti ed eventi d’ogni sorta, creando sovente quell’impatto mediatico che a volte può “condizionare” o turbare la serenità di ognuno. L’ultimo episodio risale al maggio scorso. A Brescia un padre ha gettato dalla finestra i suoi figli di 4 anni e di 14 mesi, e poi si è ucciso lanciandosi a sua volta nel vuoto. È evidente il riferimento al fenomeno del figlicidio o neonaticidio, ossia delle madri (e padri) che sopprimono la loro creatura in tenera età, o addirittura appena nata. Storie di dolore e sofferenza alle quali la società non è ancora pronta (o forse non del tutto in grado) a far fronte, nonostante tale “fenomeno” tenda a creare una casistica tanto da interessare esperti in varie discipline per studiare cause, effetti e possibili programmi di prevenzione e cura.

Approfondire questo argomento è come addentrarsi nel buio per avvicinarsi il più possibile alla mente sconvolta di giovani mamme (l’età media non supera i 30-35 anni) che, in un momento particolare della loro esistenza in preda al delirio o al “semplice” sconforto per non essere state comprese (o accettate) dai loro famigliari, per la “depressione post partum” o chissà per quali altre difficilmente sondabili ragioni, hanno ucciso le loro creature. Dal punto di vista giuridico, in base all’art. 578 del Codice Penale, si parla di infanticidio quando l’uccisione del feto avviene durante o dopo il parto, in condizioni di abbandono materiale e morale. La criminologia rispetto alla giurisprudenza fa una distinzione sulla base dell’età della vittima: l’uccisione entro le 24 ore dalla nascita è chiamata neonaticidio, e l’infanticidio va dal primo giorno di vita al compimento del primo anno di età; mentre il termine figlicidio si utilizza per i bambini uccisi dal primo anno di vita in poi. Quest’ultimo può essere ulteriormente suddiviso in una prima tipologia chiamata “figlicidio precoce”, ossia quando la morte sopraggiunge entro i 12 anni, ed una tipologia definita “figlicidio tardivo” quando include i bambini dai 13 anni in poi.

Una interessante ricerca a riguardo (“Fare e disfare… dall’amore alla distruttività. Il figlicidio materno”, Ed. Aracne) è stata pubblicata nel 2005 da Alessandra Bramante, psicologa e criminologa del Centro Depressione Donna di Milano. Un approfondito studio sia nel tempo che nelle sue principali caratteristiche, in cui evidenzia 30 anni di neonaticidi e figlicidi perpetrati in Italia da padri e madri (672 dal 1975 al 2005) la cui responsabilità include sia gli uni che le altre, in età diverse, con modalità difformi e con motivazioni differenti. L’autrice prende in esame sia la prospettiva storica che quella culturale per giungere a formulare ipotesi e teorie, senza trascurare gli inevitabili e notevoli risvolti giuridici. Ma cosa spinge una mamma a compiere un gesto così contro natura? «Sono molteplici – spiega la dottoressa Bramante – le motivazioni che portano una madre a commettere figlicidio. Le più frequenti sono la presenza di una grave patologia psichiatrica, la “Sindrome di Munchausen per procura” e la “Sindrome di Medea”. Ma anche la depressione post partum sembra essere responsabile (colpisce circa il 10 per cento delle neo mamme) ed è caratterizzata da sintomi riconoscibili come tristezza, perdita di interesse, isolamento sociale, senso di inadeguatezza, disturbi dell’alimentazione e trascuratezza di sé».

Da questa minuziosa ricerca (probabilmente, oggi assai aggiornata) emerge inoltre, come le madri abbiano molti precedenti psichiatrici e pochi precedenti penali, mentre i padri al contrario hanno numerosi precedenti penali e pochi precedenti psichiatrici. Gli infanticidi d’interesse psichiatrico-forense riguardano (oltre alle sindromi di Munchausen e di Meda, e alla depressione post partum) essenzialmente quadri schizofrenici con deliri e allucinazioni che coinvolgono il bambino, depressione maggiore con idee di rovina determinanti suicidi allargati “altruisti”, pedofilia sadica, incuria da situazioni di gravissimo abuso cronico e acuto di sostanze alcooliche della madre o di entrambi i genitori, follia indotta o multipla. La tipologia psicologica nelle madri neonaticide ha fatto constatare soprattutto personalità immature o deboli di mente, disarmonie evolutive con scarso livello etico-affettivo, un contesto socio-culturale modesto, meccanismi mentali primitivi, una scissione tra sessualità e maternità, il fallimento del “lavoro” per diventare madre, la manifestazione di fantasie di tipo psicotico.

 

Tornando alla depressione post partum che sembra essere tra le cause maggiori, perché è considerata il “lato oscuro” della maternità? «Perché è difficilmente riconosciuta dalle donne – spiega la psicologa – in quanto è un aspetto negativo dell’essere mamma: piange, non dorme la notte, si sente insicura e crede che non sarà una buona madre per il suo bambino. La depressione post partum è un “ladro che ruba la maternità”, qualcosa che fa paura. Ma se si prende coscienza del fatto che anche la mente si può ammalare senza vergogna, e si accetta di essere aiutati, è possibile uscirne e godere appieno della propria maternità». È una patologia che se individuata in tempo è curabile, per cui è importante intervenire preventivamente soprattutto perché vi sono fattori di rischio già presenti durante la gravidanza come la familiarità psichiatrica, una gravidanza non desiderata, la vicinanza tra due gravidanze, la presenza della sindrome premestruale, oppure un rapporto conflittuale di coppia. La società non è però meno “responsabile” di fronte a questi eventi, come lo stare accanto, appunto, alla donna che si appresta a diventare madre, anche se in questi ultimi tempi c’è un po’ più di attenzione a tutto ciò che riguarda la maternità. Rimangono da sfatare quei miti sulla maternità che la società ci propone sotto diversi aspetti, come ad esempio il fatto che avere un bambino sia esclusivamente fonte di gioia, quando si sa che non sempre è così e che esistono fattori che possono impedire alla donna di vivere serenamente la maternità.

Ma anche i mass media, nel dare notizia di questi eventi sono a volte responsabili tanto da creare quell’impatto mediatico che potrebbe, in alcuni casi, compromettere il rispetto della privacy e della dignità della persona. Troppo spesso accade che la privacy venga violata dall’accanimento e che resti la grave infrazione di essersi intromessi, non solo da parte degli addetti ai lavori ma anche da noi tutti, spettatori nella vita e nel dolore dei protagonisti di queste tragedie familiari. «Se una madre è innocente – conclude a questo riguardo la dottoressa Bramante – la sua immagine sarà infangata e, al contrario, se colpevole, il suo atto deve riguardare la giustizia e la medicina, e senza ombra di dubbio sarebbe necessario spegnere i riflettori su di lei lasciando, a lei e alla famiglia, il tempo e lo spazio per elaborare il loro dolore».

A sostegno e a tutela della mamma e del bambino da circa sei anni è operativa a livello nazionale l’Associazione Progetto Panda (onlus), le cui finalità sono la prevenzione e il trattamento del disagio psicosociale della donna in gravidanza, della puerpera e della mamma con bambini piccoli. Tra gli operatori psicologi, psichiatri, psicoterapeuti ed educatori con esperienza nell’ambito del disagio della donna in gravidanza, del puerperio e di quello dell’età evolutiva, oltre ad altri operatori che fanno parte dell’associazionismo non-profit e del volontariato dell’area assistenziale e socio-sanitaria. In particolare l’associazione si occupa della salute mentale della donna e del bambino attraverso una serie di interventi di prevenzione e di trattamento in grado di affrontare precocemente i segnali di disagio e di difficoltà di relazione nel rapporto tra mamma e bambino. Il loro lavoro si basa su colloqui psichiatrici, psicoterapia individuale e di gruppo, corsi di rilassamento, valutazione della relazione con la neuropsichiatria e lezioni ai corsi di preparazione al parto. Per informazioni: www.centropsichedonna.com – Tel. 02/636.33.313.

 

Ernesto Bodini

(giornalista scientifico)

2 thoughts on “Quando la psiche entra in famiglia…

  1. Benvenuto tra noi, Ernesto! Già dai primi servizi si può evincere che la tua collaborazione sarà preziosa per la redazione e per i nostri lettori.

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