Prossimità e lontananza: icone dell’esistenza interrogata dal senso

A volte diventa difficile comprendere il motivo per cui una frase detta o un gesto finanche inconsapevole, ci attraversano l’anima con la stessa celerità di un fulmine per scavare e bruciare … scavare ed inquietare.

Come può capitare dinanzi a questo brano evangelico proposto recentemente all’attenzione dalla liturgia domenicale:  “In quel tempo, si avvicinò a Gesù uno degli scribi e gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?».
Gesù rispose: «Il primo è: “Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. Il secondo è questo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Non c’è altro comandamento più grande di questi».

Lo scriba gli disse: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all’infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici».

Una prima considerazione. La scena che si offre riscatta largamente lo stereotipo denigratorio di scribi e farisei del tempo. L’attenzione è concentrata su una pacata ed informale conversazione tra due appassionati conoscitori della Torah che, alla maniera rabbinica, si scambiano punti di vista sulla questione del senso fondante il testo sacro. Una questione non da poco trattandosi di definire il dinamismo interiore che attraversa e sostiene la valenza etica, teologica e pedagogica di tutto il pentateuco.

Il clima è di reciproco rispetto ed ammirazione.

E lo scriba sembra spingersi anche oltre l’individuazione del senso della Torah per assegnargli, anche, con forza, indiscutibilità di ruolo prioritario: l’amore ne è il criterio  sorgivo e senza di esso, tutto, anche il gesto rituale più sacro, diventa secco ed inutile.

Siamo così adusi ad una visione superficialmente negativa del giudaismo dei  vangeli  che quasi ci stupisce e sorprende, non poco, questa scena equilibrata tra Cristo e i detentori del sapere religioso in Israele; trascuriamo il fatto che l’indignazione quasi esclusiva che Cristo riserva al potere religioso del suo tempo, lungi dal voler designare l’imputato d’eccellenza, stigmatizza, invece, la velenosità e l’intollerabilità della prevaricazione e dell’abuso dei poteri religiosi di qualsiasi denominazione ed ovunque; facciamo fatica ad intuire il tracciato unitario che attraversa i testi e colloca in giusta luce fatti e situazioni, sovente innegabilmente conflittuali, che si animano attorno e a causa del Rabbi di Nazaret; anche l’aspetto relazionale della vita di Gesù, che abbraccia  i legami parentali ed amicali come pure la solidità dell’appartenenza alla propria gente ed alla propria terra, arriva estenuata alla nostra percezione fino a sfumare. Dimentichiamo che l’evento Gesù Cristo accade all’interno di un processo di rinnovamento e di crescita dell’esperienza religiosa in Israele.

Ad ogni modo, la preclusione antiebraica culturalmente cementificata, ha debilitato in noi la capacità di riconoscere la singolarità e la radicalità dell’amore e della dedizione alla Parola che è nucleo e ragione dell’esperienza religiosa e storica di parte considerevole del  giudaismo. Dedizione spinta fino al sacrificio della vita. Fino al martirio.

Ed ha lungamente impedito la risorsa costruttiva del dialogo allo stesso modo del deleterio accanimento di una malattia autoimmune che si ostina a rifiutare ciò che non può essere cancellato.

Non è strano allora che, con una buona dose di pressappochismo animoso, si è finito per avocare a noi come cristiani il nobile comando dell’amore ed assegnare agli ebrei quello del “ … dente per dente”.

Ma, è storia passata, ormai.

Del brano menzionato, conosciutissimo, viene sottolineato come l’amore a Dio e al prossimo sia giustificato e radicato nel comando previo dell’ascolto.

Ascolto del Dio della rivelazione. Ascolto del Dio che parla a tutti i suoi figli in ogni angolo della terra e svela la sua presenza nelle opere della creazione e, ancora di più, nel prodigio della significatività e singolarità della nostra esistenza umana nel mondo, esistenza rinnovata ed abitata da Cristo.

Ma quello che mi ha interiormente contagiato è la seconda locuzione del brano in questione: “Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio». E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo.”            Marco 12,28-34

È un fatto. Mentre siamo e edotti ed abituati alla prima parte del  testo evangelico, di questa seconda non sappiamo cosa farne. Tutto sommato è del tutto ininfluente dal momento che non ci riguarda. Nella accezione interpretativa comune, infatti, essa allude quasi esclusivamente al rifiuto di Cristo da parte del suo popolo. Non è, quindi, diretto a noi. E, conseguentemente, lo si congeda con ovvio sottinteso: lontananza abissale degli ebrei dal regno di Dio e, manco a dirlo, scontata prossimità cristiana e cattolica che di questo Regno ne siamo, di diritto, cittadini primi.

Beninteso, l’esegesi e la valutazione delle prospettive storiche e culturali attraverso le quali giudaismo e cristianesimo guardano all’evento Gesù Cristo, competono agli studiosi, ovviamente. Ma a noi rimane tra le mani l’inesausta ricchezza e versatilità di una pagina entro la quale ogni uomo della terra si specchia e riconosce.

Lo sguardo scritturistico, infatti, sembra andare ben oltre la forma letterale fino ad affrancarsi, quasi del tutto, dal dato etnico e geografico.

E diventa lo sguardo sapiente che colloca il mistero Gesù Cristo morto e risorto all’interno ed al centro della nostra stessa radicale ambiguità antropologica. Nel mentre, contestualmente, ci svela il mistero del male, e del male assoluto, dinanzi al quale le nostre categorie interpretative, inadeguate e parziali, collassano.

Cristo all’interno del limite, del male, della morte.

Ed è qui, da questo territorio antropologico apparentemente disadorno e neutro, che risuona l’aforisma di Cristo: «Non sei lontano dal regno di Dio».

Qui, dove ci sorprende l’aleggiare dello Spirito che soffia e crea la vita con potenza, in uno spazio che sfocia nell’immensità stessa di Dio, qui è il Regno.

Qui dove la fiamma del creatore arde a sigillo ed impronta d’origine e dove il mistero divino inquieta ed acquieta, qui è la casa di tutti.

Il luogo dove da estranei e dispersi è possibile riconoscersi e scoprirsi attraversati e segnati da dignità e sacralità oltre ogni comprensione.

La nostra umanità è luogo del mistero.

La nostra carne è casa della Presenza.

La nostra esistenza è teatro di prossimità e lontananza.

Perché è qui che Dio stesso ha preso dimora in Gesù e vi abita assegnandoci la misura della sua pienezza umana e filiale.

Da qui la scoperta e la gioia di essere parte di un immenso amore, chiamati a diventare spazio e terra e casa e convito per ogni creatura sotto i cieli.

E può significare la differenza tra casa dell’oscurità o della luce. Della morte o della vita. Dell’ostilità o dell’accoglienza. Può diventare luogo inospitale o tempio di preghiera. Luogo di distruzione dal quale l’uomo stesso, inorridito, fugge o fucina di pace e di convivenza.

Qui ogni sussulto umano ha cittadinanza ed indelebilmente vi lascia segno e memoria e fecondità e vita: l’amore, la gioia, la delusione, la prostrazione, l’inquietudine, le ferite, la collera, la lode ..

Qui la palestra dell’accadere e del riconoscere. Dell’inizio e dell’epilogo.

Da qui si può emigrare e tornare. Perdersi e ritrovarsi. Disertare e rimpiangere.

«Non sei lontano dal regno di Dio».

Il regno di Dio in noi significa la pienezza e la solidità dell’essere accolti. Indubitabilità di appartenenza. Complicità di figliolanza.

Esso ci è offerto e si accresce per l’ascolto dello Spirito che ci abita e risveglia, per la fede che ci rigenera e ci fa rifiorire all’esistenza come grazia e benedizione.

«Non sei lontano dal regno di Dio».

Parole che tradiscono e traducono, da sempre,  un  insospettato tesoro di tenerezza fiduciaria disarmante. Fiducia in noi. Deposta in noi.

Parole come appello e svelamento di un amore incondizionato.

Come sprone nella fatica del cammino e certezza nel dubbio.

Come memoria bruciante della meta che ci è assegnata.

Come benedizione di un percorso fatto nel quale non siamo mai rimasti soli..

Da sempre ed ovunque siamo, Lui è là. Con noi. Anche se noi possiamo essere distanti e persi.

«Non sei lontano dal regno di Dio».

Per ognuno di noi, qualunque sia lo stile e la problematicità del cammino esistenziale,

c’è sempre, a rassicurare, l’esortazione appassionata di Cristo.

E questo voce continua a risuonare lì, alla porta del cuore di ogni uomo e donna di ogni tempo che viaggia il mondo nella quotidiana fatica di rialzarsi ed andare … rianimarsi ed ascoltare …  in un laborioso altalenare di prossimità e lontananza.

Prossimità e lontananza come situazioni, ed anche incognite, di chi si è messo in viaggio. Ne fanno parte.

Possono significare il paradosso della prossimità alla meta di chi è fuori dall’atrio religioso e la lontananza di chi nell’atrio pensa di abitarci.

Possono scandire l’alternativa tra chi guarda avanti e chi torna indietro. Tra chi contempla il Volto e chi si guarda i piedi. Tra chi si attarda a catalogare e stigmatizzare e chi si lascia governare dall’amore che appiana e precorre.

“..Non sei lontano dal regno di Dio”.…

Questo incitamento è per noi. Per ognuno di noi.

Questo anno della fede è il tempo propizio per riascoltare e riprendere il cammino.

Per  lasciarsi contagiare da rinnovato entusiasmo nella fede comunitariamente proclamata e riassaporare la bellezza di contemplare il nome ed il Volto nel Signore risorto, come Chiesa.

Per implorarla come dono per mondo e moltiplicare la gioia. E risvegliare la speranza.

Non sei lontano …

Perché nulla ci può separare dall’amore di Cristo.

        Emanuela Verderosa  

 

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