Perché leggere “Il giovane Holden” di J.D. Salinger

I libri a volte si chiamano: molti ragazzi, ad esempio, negli anni ’90, scoprirono “Due di due” di Andrea De Carlo perché lo citava Enrico Brizzi nel suo “Jack Frusciante è uscito dal gruppo”.

I libri a volte ti chiamano ed è un richiamo a cui non puoi sfuggire,  anche se si tratta di una lettura già fatta, soprattutto se sono due autori diversi a citare lo stesso romanzo. Ed è ascoltando questa voce che sono tornata a “Il giovane Holden” di J.D. Salinger, un evergreen di cui la mia labile memoria conservava solo uno sbiadito ricordo. E tenere a mente solo l’interrogativo sulle anatre del laghetto di Central Park ed il titolo originale in inglese, The catcher in the rye, è decisamente poco …

Certo, non è un’opera che ha bisogno di recensioni per attirare nuovi lettori, ma qualcosa di nuovo da dire si può sempre trovare: ognuno di noi è un mondo a sé.

Una lettura, questa, adatta a chi, come il suo protagonista, preferisce i libri che “almeno ogni tanto sono un po’ da ridere”. Soprattutto, però, è un libro adatto a chi guarda alla sostanza senza curarsi delle etichette. Sì, perché “Il giovane Holden” non è facile da classificare, come già l’intraducibile titolo originale potrebbe suggerire. Forse fu proprio per questo suo stare fuori dagli schemi che la casa editrice Einaudi, per l’edizione del 1998-1999 della collana “Gli struzzi”, scelse di non inserire alcuna immagine nel caratteristico riquadro bordato di nero che troneggia sulla parte medio-alta della classica copertina bianca.

Holden Caulfield è un adolescente, in quanto tale perennemente in bilico tra motti infantili e pensieri degni di un cervello adulto. Con suo grande disappunto, tuttavia, di questa seconda faccia (e non solo) la gente sembra non rendersene conto: “Certe volte mi comporto come se fossi molto più vecchio di quanto sono – sul serio – ma la gente non c’è caso che se ne accorga. La gente non si accorge mai di niente”. È irriverente, il vecchio Caulfield, come lui stesso si chiamerebbe, e questo suo essere autentico, anche a costo di risultare sgradito, lo rende ancora più simpatico a chi legge. Ma è un ragazzo solo all’apparenza freddo e menefreghista, come ben si comprende in più passaggi del libro ed in alcune delicatissime pagine. È poi un acuto osservatore, capace di smascherare l’imperante ipocrisia dell’ambiente che lo circonda e di provare uno sdegno sincero davanti alle sue più nauseanti manifestazioni: “Prendete la gente che si consuma gli stramaledetti occhi a forza di piangere per le cretinate balorde dei film e nove volte su dieci in fondo in fondo sono degli schifosi bastardi”.

Fino all’ultima pagina, il lettore resta col fiato quasi sospeso, in attesa che succeda qualcosa di eclatante, per poi comprendere, in conclusione, che questo è un libro dove a dominare sono i “non accaduti”. Perché è un romanzo “naturale”, che senza proclamarlo si oppone agli artifici ed alle finzioni di ogni sorta. E perché, nella realtà, non tutti compiono grandi gesti, eppure sono: hanno pensieri, sogni, ricordi. E a Salinger interessava raccontare ciò che Holden è, non ciò che fa.

Marcella Onnis

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