Peppino Impastato, un ragazzo come noi

Ciuri di campo che mori, chianci la terra chianci lu cori
In una famosa scena del film “Johnny Stecchino” lo zio mafioso della protagonista spiega ad un Benigni appena arrivato a Palermo che sono il traffico, l’afa e l’Etna le tre piaghe che affliggono la Sicilia; la fregatura è che tutti sappiamo qual’è la prima vera piaga, ma quando metti piede in Sicilia potrebbe anche passarti accanto senza che tu te ne accorga, perso ad ammirare quanto questa terra sembri un quadro dipinto da qualcuno nella sua giornata migliore: te lo immagineresti mai che può esserci anche questo schifo dentro a quella meraviglia? Cinisi è un paesino siciliano che, mentre si appoggia alla montagna, si specchia anche meravigliosamente nel mare: è quanto di più bello sembra esserci sulla faccia della terra. A lato della strada che porta al paese ci sono animali che pascolano, fichi d’india, salici piangenti, in motorino ragazzini in costume che se ne vanno al mare: è una bellissima giornata di agosto, e la bellezza che ti circonda dà quasi la sensazione che il caldo sia più sopportabile. Qui 63 anni fa è nato Peppino Impastato e sempre qui, 30 anni dopo, Peppino Impastato è stato ucciso: era nato e cresciuto in una famiglia mafiosa ma aveva troncato ogni suo legame con quell’ambiente rompendo prima i rapporti con suo padre e denunciando poi gli affari delle cosche e le collusioni coi politici attraverso una radio che aveva fondato nel 1976, Radio Aut. Venne ucciso dai mafiosi il 9 maggio 1978.
La casa di Peppino Impastato si trova lungo una via principale di Cinisi ed è oggi un Centro di Documentazione che porta il suo nome. I familiari e gli amici che gestiscono il Centro hanno deciso che la porta d’ingresso sarà tenuta costantemente aperta per chiunque voglia entrare, sempre. La casa di “Don” Tano Badalamenti invece, boss mafioso degli anni ’70 e mandante dell’omicidio di Peppino Impastato, si trova Centopassi più avanti: e qui le finestre e la porta sono serrate. In qualsiasi altra parte del mondo probabilmente non ci faresti neanche caso ma qui un “dettaglio” del genere fa la sua differenza: qui una porta aperta o una porta chiusa significano qualcosa di più; perchè per fare una scelta del genere la gente può morire.
Soffermarsi sui gradini della casa di Peppino e vedere quella del boss proprio lì vicino a te dà una vaga idea di quanta forza sia necessaria per affacciarsi fuori, vedere che non ti conviene ma continuare a farlo. Ed è pur sempre vaga ma ti fai anche un’idea dell’angoscia di una madre e di un fratello che sanno che sei condannato a morte, del dolore dei tuoi amici che non ti vedranno più, di cosa significhi piangere un corpo che non verrà mai restituito. Salire quei 3 gradini ed entrare dentro ti fa sentire come se i padroni di casa stessero per rientrare da un momento all’altro o che siano partiti per un breve viaggio: quel classico odore delle case rimaste chiuse per anni non c’è e l’arredamento è stato lasciato esattamente come quando ci viveva la madre Felicia, che è morta nel 2004. Quando vedi il divano di Peppino, la sua cucina, i quadri, il tavolo da pranzo, quell’aura di eroe che gli avevi costruito intorno si sgretola e realizzi che questo ragazzo era un ragazzo esattamente come noi: nè un personaggio mitologico dotato di superpoteri, dalle gesta irripetibili e insuperabili, nè un cavaliere senza timore e senza macchia. Peppino era proprio come noi, nato per passare una giornata come questa al mare e per vivere nella maniera che riteneva migliore: sputando sulla mafia guardandola in faccia. Semplicemente un ragazzo, magari con più palle degli altri, uno di quelli che va avanti spedito come un treno, coraggioso, coerente; ma un ragazzo come noi. Senza superpoteri. Uno che avrà riso e avrà pianto come tutti noi, avrà avuto le sue giornate storte o sarà stato felice, innamorato, avrà sofferto per amore. Come lo facciamo tutti. E ti accorgi che è più facile elevare Peppino e tutte le persone morte in nome dei propri ideali a eroi d’altri tempi, a persone che sanno più di mitico che di reale, in modo che quella domanda non sorga spontanea: ma se l’hanno fatto loro, perchè non potrei farlo anche io?
La ribellione di Peppino Impastato oggi la conosciamo anche e soprattutto grazie agli amici e a Giovanni e Felicia, il fratello e la madre, che hanno continuato imperterriti a sostenere, nei tribunali e nella vita, che non è stato un suicidio di stampo terroristico ma un vile omicidio mafioso a volere che la bocca e la porta di Peppino si chiudessero per sempre. E nel 2002, dopo 24 anni e due archiviazioni, il boss Tano Badalamenti è stato condannato all’ergastolo come mandante dell’omicidio di Giuseppe Impastato. Se per far desistere alcune persone bastano le minacce, gli insulti, se con altre funzionano meglio una busta piena di soldi, un bracciale, un anello, una casa sul mare, una poltrona in Parlamento, ce ne sono però tante altre ancora talmente piene di idee e di coerenze, che solo un carico di tritolo può fermarle: assolutamente indomabili e completamente libere. E te lo immagineresti mai che può esserci stata tanta meraviglia dentro a quello schifo?
Grazia D’Onofrio
Con una domanda l’articolo si apre, e con quella diametralmente opposta si chiude. E il testo sgorga da un sentito intreccio tra storia di cronaca e poesia… Spia della passione e del sentimento, del palpito in più che questo piccolo gigante ha lasciato nel tuo cuore e dell’orma decisiva che ha impresso sul tuo cammino. Brava.