Pellegrinaggio: imperativo interiore tra antica inquietitudine e disagio di oggi

Una traccia ad effetto? No!  È quanto mi pare possa tradurre per noi, oggi, l’esperienza di un pellegrinaggio. Un qualsiasi pellegrinaggio. A Fatima, come nel mio caso, o in qualunque altro luogo prossimo o lontano.

Il termine stesso pellegrinaggio  evoca percezioni della vita e del mondo fortemente datati e  desueti da richiedere, necessariamente, una rivisitazione culturale impegnata per entrarvi compiutamente.

L’arte, la storia, la tradizione, la geografia del luogo diventano, allora, la porta necessaria per accedere alla comprensione delle motivazioni originarie che hanno dato inizio ad esperienze umane e religiose condotte, spesso, in contesti di precarietà e pericolosità tali da mettere a repentaglio la vita. O di cambiarla radicalmente.

E un pellegrinaggio suggerisce, anzitutto, un interrogativo non facile e non indolore sulla qualità della nostra testimonianza di fede cristiana comunitaria attraverso i tempi e fino a noi.

Una riflessione necessaria. Doverosa. Urgente. L’anno della fede è alle porte.

E non solo. A fronte di un pensiero strisciante aridamente autoreferenziale, il pellegrinaggio ci riconsegna alla verità del  nostro limite creaturale. Limite strutturale e provvidenziale che rimanda ad una significazione ulteriore e spirituale.

Una sorta di rivisitazione antropologico-culturale della precarietà della vita e del mondo.

Insieme all’opportunità di rigenerare la positività dell’esistenza.

E si impone una considerazione.

Noi, come occidente cristiano, stiamo scivolando nell’afasia. Siamo ingessati nell’incapacità di dire e condividere un linguaggio comune sulla base ed in ragione di valori e finalità condivisi.

Si è frantumato quel contesto culturale e religioso che era spazio comune, idioma e collante per identità di popoli pur diversi e sottoposti alla macerazione di convivenze difficili e vulnerabili. E stentiamo ad elaborarne un altro.

Assistiamo, invece, all’apoteosi delle soggettività individuali.

Abbiamo una moneta unica, libertà di commercio e di movimento ma non un linguaggio capace di costruire un noi motivato e solidale. Un noi che, ahimè, è largamente frantumato a partire dai nostri stessi tessuti urbani e culturali e che, soprattutto in settori civili di crisi più evidente, ci lascia spiaggiati  al limite dell’incomunicabilità. Fino ad erodere lo stesso tessuto umano della convivenza comunitaria. E restiamo attoniti a parlare tra sordi tentati dalla segreta convinzione (o dall’utopia?) che il solo linguaggio tecnologico ci possa bastare. Sappiamo bene che non è così. Disorientati ed incerti, siamo comunque consapevoli che non ci basta. Che non può bastare. Questo pellegrinaggio, e la presenza di molti giovani, sembrano confermarlo.

Insieme all’evidenza di come la fede possa rivelarsi, concretamente, un potenziale dialogico e comunionale per le genti.

Durante questi otto giorni itineranti tra Spagna-Portogallo, una pluralità di linguaggi ha catturato e messo alla prova la nostra resistenza:  il linguaggio della nostra ottima guida Paola; quello delle architetture, dei panorami, dei sapori, degli odori, insieme al tracciato di una considerevole parte della storia portoghese. E non solo.

Nella realtà siamo stati catapultati in un prototipo di quella che è stata la complessa ed ambigua storia del cattolicesimo in Europa e nel mondo, insieme alla variegata e concitata modernità.

Porto e le sue distillerie di vino liquoroso, la sua cattedrale, i ponti arditi sul Duero e gli ammutoliti monasteri confiscati.

Braga, seconda città per importanza e il santuario del Bom Jesus do monte, incastonato al vertice di una geniale e sorprendentemente agevole scalinata monumentale.

Batalha e il suo convento di Santa Maria della Vittoria concepito in raffinato gotico e abbellito con decorazioni in stile manuelino  e che lascia domande mozzate per le sue cappelle incompiute aperte sul cielo ostinatamente caldo e sereno.

Alcobaca e il suo monastero avveniristico con tanto di acqua corrente deviata dal fiume nelle cucine (ma che difetta incomprensibilmente di bagni, visto che lì vi vivevano anche in trecento persone fra conversi ed ordinati …).

E Coimbra, con la sua famosa ed antica università e il monastero che ha ospitato la veggente suor Teresa … e  Nazarè, a precipizio sull’oceano … e Finisterre, uno dei teatri dell’ardore delle scoperte in oltremare e termine vittorioso del viaggio dei pellegrini.. e … e … e … Compostela e Fatima, ovviamente,  e la leggiadra e colorata Lisbona che si protende dall’alto del colle fino a scivolare leggera all’estuario del Tago ….

Ovunque  e sovente il messaggio cristiano è affidato alla nuda essenzialità della pietra; più spesso fregi di pietra adornano altra pietra in una fuga di forme chiaroscurali che si rincorrono all’infinito fino ad estenuare lo sguardo.

Strano come segmenti storici etichettati come oscuri  nascondano poi, in realtà, una sotterranea, plastica, insaziata ed insaziabile tensione esplorativa del proprio territorio interiore …

Come non rimanere avvolti, stupiti, soverchiati ed interpellati dalle ardite costruzioni gotiche o gotico-romaniche che traducono, al contempo, tensione dello spirito verso la luce ed inquietante oscurità di fede stravolta ed appesantita da aggressiva e cruenta concezione evangelizzatrice e che rimane trascritta lì, soverchiata dalla profusione di ori, ad ammonire sull’evangelica durezza di cuore e a custodire (perché no?) la memoria di moltitudini sacrificate per la purezza della fede cattolica romana e che il martirologio non ospita …

E davanti a tutto questo, emblematicamente, non posso non pensare anche all’odissea ebraica: odiati perché Vecchio (ed inutile) Israele; perseguitati perché marrani; sfruttati perché colti ed operosi. Per loro l’orrore non ha avuto né misura né tregua, avallato dall’insegnamento del disprezzo nella Chiesa … anche questo mi  raccontano le superbe architetture.

Una memoria scolpita di sangue e di pietra con la quale fare i conti.

Senza reticenze. Senza strategie di occultamento  o svicolate infastidite o uscite di sicurezza che tappano occhi e cuore. Purificazione della fede. Rievangelizzazione che inizia da noi. Dentro di noi. E che è affidata, anzitutto, alla testimonianza umile e condivisa della speranza tra gli eventi quotidiani dell’esistenza (altro che Militia Christi!).

Fatima ci indica la via: Ritornare a Cristo! Riconoscere sulla nostra strada l’itinerante Nazareno che è pane per la nostra fame di senso; acqua per la nostra sete di infinito; vino per il nostro insopprimibile anelito alla gioia (la gioia! … diventata merce rara …). Riscoprire, rinnamorarci di Cristo, come singoli e come comunità, attraverso il sostegno, quotidianamente implorato, e l’affidamento confidente a Maria.

Rieducarci alla fede al di là e dentro la nostra fatica di vivere. La fatica di credere.

E  una perplessità, piccola, occhieggia: l’Europa è stata mai cristiana nel senso evangelico del termine?!?!

Un’altra cosa non guasterebbe nei viaggi che si etichettano come pellegrinaggi: uno stile più sobrio sia personale che di gruppo.

Anni fa si parlava di turismo responsabile. Ora è uno slogan ormai irreperibile. O, forse, questo spirito è ospitato solo in sporadici gruppi di “avventurieri” desiderosi di entusiasmarsi ad ogni angolo di mondo e costretti a fungere, loro malgrado, da impotenti testimoni dei disastri ambientali ovunque presenti ed annunciati.

È chiaro che si tratta, inevitabilmente, di assunzione doverosa ed inderogabile di  responsabilità verso l’ambiente e gli ecosistemi e a cui tutti siamo tenuti.

Di rispettare e tutelare la bellezza fragile e minacciata del patrimonio ambientale che dovremmo passare ad altri.

Si tratta di amore per il creato, la nostra casa comune, e per tutte le forme di vita.

Il governo della chiesa ha iniziato a parlare di recente, in sordina e teoricamente, di salvaguardia del creato.

Di fatto, noi cristiani non siamo attori propositivi in materia e, per consuetudine o cultura (o dis-cultura), pensiamo poco alle conseguenze sull’ambiente anche solo dei  nostri più comuni gesti quotidiani radicati nei nostri discutibili e consolidati stili di vita! (a cominciare da quello che buttiamo …)  Strano!  Esistono reati  ambientali ma non peccati contro l’ambiente!  Questi svicolano dalla coscienza. E, d’altronde, una vetusta concezione catechetica che assegna all’uomo il ruolo di dominatore, più che custode della terra, non ha aiutato molto a creare questa sensibilità.

Ma oggi, in un contesto umano ed ambientale in cui tutti i processi sono notevolmente accelerati (buon senso escluso), dovremmo invertire la rotta e pensare seriamente e fattivamente al galoppante rischio autodistruttivo innescato nell’ambiente che ci accoglie.

Magari a cominciare, insieme ad una ricerca di fede, dal prendere atto di servizi alberghieri fanatizzati all’eccesso, (come il cambio quotidiano di biancheria in camera, o cose di questo genere …).

I fiumi di Spagna e Portogallo e le sorgenti di Fatima, ce ne sarebbero grati. Ed anche quelli della nostra terra. E ovunque.

Esagerazione? Andiamo!  È solo una provocazione non una crociata!

 

Emanuela  Verderosa

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