Raccontonweb: “NotteStrana” di Gaetano Marino

Vi proponiamo oggi un altro brano di Gaetano Marino, che segue il suo Un’ora del mattino, ode al borgo nuovo del Kaos, da noi pubblicato lo scorso 29 settembre.

Prima di lasciarvi in compagnia di questo sorprendente narratore, vi ricordiamo che anche voi potete inviare contributi per questa rubrica: dovete semplicemente seguire le poche regole del nuovo regolamento di Raccontonweb!

 

NotteStrana

Poi ci sono notti disordinate. Le notti stanche. Notti dove non accade nulla, niente più si muove. Neppure il tempo si fa sentire, ti mane lì accanto e ingarbugliato, impassibile. Non c’è neppure un’idea che sappia di terribile, nessun gusto acre.

Eppure, proprio in questo tempo sfinito, ci sono delle notti che accadono. Così è, pur sapendo di fare torto all’amica compagna della notte dei fiori, Alda, Nostra Signora Poetessa dei Navigli, per l’appunto. Ebbene, in queste notti imprevedibili, appaiono strane cose, strane forme. Tranne il solito raffreddore. Ebbene, questa sarà una di quelle notti. La chiamerò quindi, NotteStrana.

Quanti saranno stati in tutto, venti, trenta secondi, un minuto forse, non credo di più. Il paese? Quello che vuoi. Dove? Al solito Caffè Triste, in un angolo dell’eterna e gloriosa Piazza di Maggio,   con le sue luci antiche e quasi buie. È notte, notte tarda e me ne sto sprofondato in quella solita stupida seggiola. Ho appena finito il solito caffè, accendo la solita sigaretta, lancio la prima boccata.

Provo a disegnare nell’aria qualche tondo di fumo, pur sapendo di non esserne mai stato capace. Questa volta però, non so come né di dove né perché, riesco a comporre il mio primo buchettino. Un po’ povero e magro, ma perfettamente tondo. Tra lo stupore ci riprovo, ma che gioia! Eccone un altro e più robusto, che spasso! ancora un altro e un altro ancora, che maraviglia! Ecco i primi sintomi del male oscuro. Passano alcuni minuti e manovro lo sguardo al cielo. Toh, ci trovo la luna, la solita luna. Un po’ appannata questa sera, timida e impacciata. Domani ci sarà vento. Scivolo con gli occhi sulla piazza. Non c’è più nessuno, tranne una vecchia signora poco lontana: è appoggiata sul davanzale stanco del cornicione di una scalinata. Ha lo sguardo immobile su di me, sembra voglia dirmi qualcosa. O forse mi sbaglio. O forse è la luce che confonde tutto. O forse, ma, chissà, va beh, non importa.

Pago, mi alzo e me ne vado. Le sigarette! Dimenticate… mi volto per recuperarle, e in quell’istante: appari. Per un momento, ma solo per un momento mi domando: e questa da dove spunta fuori. Domanda inutile, ma non riesco ad evitarti, troppo vicina, troppo improvvisa ed eccoti pestata dalla mia testolina. Sfugge un grido, credo sia il tuo, porti le mani al viso e pieghi la testa.   Cavolo, t’ho beccato forte! Ti guardi le mani, sollevi il viso e mi sbatti gli occhi in faccia.

E qui cominci! Oh, inarrestabile e prelibato scivolare nella squisita carne del tuo senso. Insomma, mi compari come una specie di madonna campagnola timida timida ed è la fine per me. Dalle narici ti sfugge un rivolo di sangue, invade le labbra e riga il mento: la madonna sanguina! Eh, lo so, lo vedo, porcaccia miseria. Tiro fuori dalla tasca dei pantaloni il mio fazzoletto.
– Ecco tieni, prendi il mio.
Non sarà una buona idea. Lo prendi in mano quasi d’istinto, il sangue cola e quasi raggruma sul vestito, avvicini di fretta il mio fazzoletto al naso, poi ti fermi d’improvviso, dilati gli occhi – l’iride trema – e allontani come peste il mio incauto fazzoletto. Mi guardi, ti guardo. Che c’è? Scoppi a ridere. E anche qui, angeli dell’inferno, sorriso magnifico, insolito, per niente fuori posto. Mi porgi il fazzoletto a giusta distanza tenendolo tra due dia,  mentre dilati gli occhi e pieghi la bocca. È un messaggio chiaro, quindi volo rapido con gli occhi sul fazzoletto… Eh, cristo santo! Macchie antiche di giallo scuro bordate, si svelano impietose. Residui solidi e incrostati, appaiono come morti sfigurati su un campo di battaglia. Maledetto raffreddore, maledetto sia. Con una accelerazione di cui neppure io mi do conto, ritiro dalla scena quella sciagura immonda.

Continui a ridere, tiri su col naso, e ridi ancora e tu sai bene che più ridi più mi scaraventi in un baratro di vergogna. Carnefice obsoleta. A questo punto rimane solo il punto più alto della piazza in cima a quel lampione spento di laggiù, poi il suicidio con al seguito una bella foto live su qualche social e sarà il mio momento. L’avevo detto io che quella del fazzoletto non sarebbe stata una buona idea. È notte, notte alta e tutto si confonde con questa luce opaca.
– Aspetta, aspetta, chiedo un po’ d’acqua…
– No no, lascia stare, è tardi, non importa, ora vado in macchina, troverò qualcosa.
Chi… chi è… chi ha parlato? Ti volti e te ne vai. La testa levata in su. Indice e pollice della mano destra premuti sul naso… Che cos’era quella voce, di chi era, la tua? E quella cos’è? È una veste. Sì, una veste. Leggera, una veste leggera. E sotto? Niente da fare, sei già troppo lontana. Scendi i gradini della piazza, sfumi verso il basso e scompari. Maledetta luce, maledetta notte, non vedo una cicca!

Manovro lo sguardo irritato al cielo, direzione prima luce, e ci trovo ancora quella solita immonda e stupida luna, leggermente inclinata. Piego gli occhi verso il basso, sulla sinistra laggiù c’è lo stagno delle saline, più in là il mare. Ora me ne vado a casa, la solita casa. Scenderò i gradini della piazza. Attraverserò la strada, mi accosterò alla fermata e aspetterò il pullman, il solito pullman. Quindi, rumori di notte, automobili che vanno, freni che stridono e porte che sbattono. E infine lì, seduto di fondo, la testa poggiata, gli occhi di vetro e di fuori la luna che sa di niente. Beh, forse un piccolo sonno sull’ultima corsa verso casa non sarebbe una cattiva ipotesi.

Ma non potrà essere così perché tu sai quanto me che questa è una notte insolita. Perché di colpo si illuminerà una piccola luce, dentro un auto – la tua – accanto alla mia destra. Perché ci sarà qualcuno e scoprirò che sei tu. E volano i minuti, poi le mezzore, e io ti guardo e tu mi guardi e le solite storie che passano tutti. Quindi, tiri fuori il tuo foulard e ti asciughi viso, naso e labbra. Dovrebbero dirmi qualcosa, incuriosirmi. E infatti, solo perché questa è una notte strana, ci riescono. Esattamente come avresti voluto tu. E dimmi se è menzogna. Adorabile.

Così ci siamo ritrovati nella tua auto, coi vetri inzuppati. Nascosti tra i pini caduti. Di fuori, lo stagno delle saline di mare, coi suoi pezzi di cielo. E qualche frammento di luna asciugato sui corpi. Quella notte ci conosciamo non so quante volte, forse anche di più, non mi ricordo. Rammento solo che eravamo ingordi e pieni. Sentivamo il respiro avido e soffocato. Non un gesto inatteso, non una parola estranea, nessuno sguardo che non fosse esattamente quello. Prendevamo forma. Ogni tanto qualche piccola goccia rigava sul vetro, e se ne andava per conto suo. Anche lei, ingorda e piena.

E fuori stava la notte. E fuori stava la luna. Curiosa e spiona. Spiona, proprio. Come quelle fottute zanzare dello stagno arrampicate e affamate. Già pregustavano quelle sporcaccione. Se ne stavano lì, incollate ai vetri dell’auto, con quelle  zampette davanti che si lisciavano il becco e tutto il resto. Sapevano perfettamente che prima o poi ci saremmo arresi, che saremmo tornati. Era solo una questione di tempo, di pazienza, e quelle fetenti ne avevano tanta. Noi no. Noi non potevamo averne. Almeno sino quando la notte non si fosse schiarita, e saremmo rimasti sui sedili di quell’auto, muti e invasati. E divorati.

Un solo pensiero, «In una notte, in una notte così “solita”, dentro l’abitacolo di un auto in periferia, niente sarà più del mio corpo. Ogni attimo mi pare una lotta tra corpi e abiti che tirano e strappano ogni lembo, un meraviglioso rollio del mare di laguna del porto.

– Signore… mi scusi… signore?
Apro a mezzo lo sguardo.
– Signore… si svegli… dovrebbe scendere.
Qualcosa si muove davanti a me.  Richiudo lo sguardo.
– Signore… per favore, si svegli.
Un movimento brusco e scivola il capo…
– Che c’è… che succede?
– Siamo al capolinea signore…
– Come… dove… dove siamo?
– Al capolinea signore. La corsa è finita, mi scusi, ma devo rientrare al deposito… deve scendere.

Schiudo gli occhi è mi basta qualche attimo per ritornare.
– Prego signore, da questa parte.
Mi alzo, i ginocchi non reggono quasi e il sangue tarda a rimettersi dove sa. Barcollo, e con molta pazienza dell’autista – anche loro son in fondo buone anime –  riesco ad afferrare l’uscita. Scendo gli scalini. Un piccolo passo per un uomo, ma un grande compito per chi abbia perso ogni parvenza umana. Che stupide frasi a volte si ricordano. Le porte sbuffano alle mie spalle e insieme chiudono in quello sfiato ogni illusione. Il pullman riparte per tornare alla sua cuccia,  rimane il silenzio di un mattino ancora spento.

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