Il migrante di Domenico Quirico

quirico e bellu a gavoi

domenico quirico e giovanni maria belludi Marcella Onnis

Per darmi un tono dovrei dirvi che uno degli incontri che proprio non volevo perdermi del XIV festival “L’Isola delle Storie” a Gavoi era quello con il giornalista Domenico Quirico, in programma per venerdì scorso, 30 giugno 2017. Vi confesserò, invece, che tanta voglia di sentire discorsi seri non ne avevo e che, conclusa quest’esperienza, mi sono potuta rallegrare con me stessa per aver vinto la mia pigrizia morale … e anche per essermi fatta “schiaffeggiare” da quest’uomo. Segnalo anche che l’incontro è stato così coinvolgente che – a differenza di quanto avvenuto per altri – il pubblico si è dimostrato particolarmente educato: nonostante in tanti fossimo arrivati bagnati e disturbati dalla pioggia, nonostante il locale fosse stracolmo (Marcello Fois, tra i fondatori del festival, ha segnalato che si è trattato del primo evento al chiuso in 14 edizioni), nonostante l’orario standard per ogni evento (50 minuti) sia stato abbondantemente superato e per molti rimanesse poco tempo per cenare prima del successivo in agenda, tutti hanno ascoltato Quirico rapiti dall’inizio alla fine, senza il minimo cenno di fastidio e senza neppure accennare a voler andar via finché l’incontro non è stato dichiarato concluso.

Il giornalista ha esordito evidenziando un – almeno apparente – paradosso: nel 2011, in Tunisia, subito dopo la “primavera araba”, è iniziata l’ondata di migrazione cui tuttora assistiamo, dunque per queste persone «il primo atto di libertà è salire su una barca pericolante per andare in un posto dove sanno benissimo che li odiano». Il desiderio di comprendere le ragioni di questa scelta l’ha spinto a compiere con loro questo viaggio (che per alcuni dura anche 5 anni), per più volte: «In 6 anni non è cambiato nulla», complice il fatto che «i giornalisti non raccontano la migrazione ma ciò che la migrazione determina in noi». Un’affermazione che suona come una carezza, rispetto al prosieguo: questo è «il più colossale fallimento giornalistico che io conosca, insieme alla guerra siriana: la gente continua a morire». E questo fallimento ha per Quirico una ragione ben identificabile: «Se la migrazione non la fai con loro, non puoi raccontarla. L’esperienza del migrante non la possiamo vivere: il tempo del loro viaggio non è il nostro tempo. Il migrante vive il tempo dell’attesa, non può appassionarsi a niente: quell’amore, quel lavoro… poco dopo non c’è più perché deve partire». In più sta «in un posto dove deve dimostrare di essere qualcuno».

In questo tweet dello staff del festival è immortalata una delle affermazioni più perentorie e stizzite di Quirico, per il quale «il migrante è l’unico rivoluzionario in un mondo che non ha più la capacità morale, intellettuale, di fare la rivoluzione», espressione che per lui «significa trasformare il tempo, entrare in un mondo nuovo». Ancora, per il giornalista «la migrazione è un’esperienza mistica», intesa come «trasformazione di sé attraverso la prova del dolore»: «Il migrante è il dolore» ed «è migrante: non è più siriano, afgano, malgascio… perché non è più quello che era». Poi, dopo aver segnalato che i migranti nel mondo sono almeno tra i 60 e i 100 milioni, ha affermato che «dobbiamo inserire questo popolo nella storia del mondo».

Nel corso dell’incontro, il suo partner per l’occasione, Giovanni Maria Bellu, è intervenuto poco: pur essendo anche lui un giornalista di tutto rispetto, si è, infatti, umilmente riservato un ruolo marginale. Tuttavia, è riuscito comunque a dare un contributo incisivo, come quando, giunti a questo punto del discorso, ha rimarcato che riconoscimenti formali, a livello nazionale e internazionale, ce ne sono stati tanti ma, finita l’indignazione momentanea di una parte considerevole dell’opinione pubblica, dalla carta non si passa ai fatti. Bisogna forse parlarne di più e meglio, viene da pensare, ma le successive affermazioni di Domenico Quirico non lasciano spazio a illusioni: «Parlare di migranti non è cosa così comoda. Non scrivo di migranti da dicembre 2015: da allora nessuno me ne ha più fatto scrivere». E quando il tema viene affrontato, c’è, a suo parere, un vizio di impostazione, perché non si rimarca che «non dipende dalla bontà del singolo governo accogliere i richiedenti asilo: è un obbligo!». Obbligo sancito da una convenzione dell’ONU firmata da quasi tutti gli stati del mondo, ha rimarcato, per poi aggiungere che, stando ai giornali, sembra sia possibile distinguere tra “migrante utile” e “migrante inutile”, come anche le posizioni di Angela Merkel lasciano intendere. Il migrante utile è «quello che sa fare delle cose, che rende, perché parla una delle nostre lingue, ha delle conoscenze, è vestito come noi e magari viene da una condizione di ricchezza». Il siriano ne è un classico esempio, ha chiarito, ma – pur essendo preoccupato per quanto accade in Siria e consapevole che «questa gente parte per non tornare» – la sua inquietudine si canalizza soprattutto altrove: «Questo non è il mio migrante. Quella persona si inserirà nella nostra società, perché neanche Salvini lo butta indietro. Il mio migrante è l’altro, quello totalmente inutile perché non parla la nostra lingua (chi ve l’ha detto che parlano francese?!) e non è in grado di fare niente perché questa gente viene da luoghi in cui due atti che fate milioni di volte senza neanche pensarci non li ha mai fatti: accendere la luce e aprire un rubinetto». Poi, ancora più chiaramente, ha affermato che:

Precauzioni su cui non ha mancato di ironizzare: «Giro l’Africa da 30 anni e non ho mai preso neppure un raffreddore o una pastiglia per la malaria». Dunque, ha proseguito, «per quel migrante esigo il diritto assoluto di entrare. Il mio è un discorso totalmente politico, assolutamente laico. Il dono è lui che lo fa a me perché offre all’Occidente l’ultima occasione per dimostrare politicamente – e non eticamente – di essere quello che dice di essere», ossia di fondarsi sui diritti umani, «ciò che dice di avere inventato: con una tradizione storica e con tanta sofferenza ha sancito che ogni individuo è sacro, indipendentemente da ciò che è, ciò in cui crede. Questo è l’Occidente. Se io non sono questo, se non lo ribadiamo con un atto anziché con le chiacchiere di Mattarella il 2 giugno, che cosa siamo? Qual è la ragione per cui esistiamo nella storia di questo millennio? Non c’è alcuna ragione!».

quirico e bellu a l'isola delle storieIl pubblico aveva appena finito di applaudire quando Bellu, quasi timidamente, ha affermato di non essere d’accordo con lui, per una ragione di metodo: la norma esiste (“Dobbiamo accogliere il migrante nudo”) ma «è largamente disapplicata». E la ragione è che: «siamo cresciuti nell’illusione che quelle cose [il riconoscimento dei diritti umani, ndr] fossero date e non abbiamo fatto nulla per costruirle». Il risultato è la diffusione della xenofobia. Poi, citando il tanto diffuso “Io non sono razzista, però…”, Bellu ha affermato che, tenendo presente la differenza tra xenofobo e razzista, «dovremmo riconoscere che non c’è nulla di male nell’essere xenofobi perché la paura del diverso è una caratteristica umana. Dovremmo capire che è una nostra difficoltà e cercare di fare da argine al rifiuto del migrante». Un punto di vista onesto, in cui io mi ritrovo molto, ma non così Quirico che, richiamando il motto di questa edizione del festival (“Gli uomini passano, le idee restano”), ha ribattuto con un «a me interessano gli uomini, non le idee, che hanno creato danni colossali. A me interessano gli uomini che passano». Quindi, rispondendo più direttamente alle affermazioni di Bellu: «Credo che la gente sia sostanzialmente indifferente. Parlare di migranti è un po’ come parlare di Dio: è un argomento sgradevole… su cui poi qualche furbacchione si costruisce una campagna politica. I razzisti esisteranno sempre: sono la minoranza che fa chiasso e non diventeranno mai maggioranza, in nessun Paese. Il problema sono gli ipocriti e quelli sì che sono numerosi! Gli ipocriti sono i veri nemici dei migranti perché li usano come gli xenofobi dichiarati. Per Renzi i migranti sono una seccatura né più né meno come pensa Salvini, ma ha fatto un ragionamento ipocrita: “Se li prendiamo, vado dalla Commissione europea e dico di averli salvati, quindi devono aprire le porte e farmi sfondare il debito”. Li usa politicamente come la Merkel ha usato i siriani». E, infatti, ora che è diventato ancora più chiaro che in Europa nessuna porta si aprirà per l’Italia e per i migranti, come un Salvini qualunque, in questi giorni anche Renzi ha sfoderato un bel “aiutiamoli a casa loro”…. Scanso equivoci, comunque, gli opportunisti su cui punta il dito Quirico non sono solo i politici: «Sono un’infinità quelli che sfruttano, anche economicamente, i migranti, i più poveri del mondo». In primis, gli scafisti che, però, «non applicano i principi della malavita: applicano i principi del capitalismo. Il migrante è un business; quella degli scafisti è economia di mercato». Ed è questo il dramma, perché «i migranti sono persone», come va ripetendo dal 2011 quando – ha ricordato – ancora «nessuno diceva che dobbiamo trasformate i numeri in persone».

quirico e bellu a gavoiInsomma, ce n’era più che abbastanza per sentirsi bacchettati, ma Quirico ha affermato di non voler salire in cattedra: «Il mio mestiere non è tirare la morale: è raccontare. Sono i vostri occhi, il vostro naso, le vostre orecchie. La morale la tirate fuori voi». E, riguardo a suo lavoro e al suo ruolo, è stato ancora più categorico: «I giornalisti devono raccontare storie di uomini, VIVENDOLE[sia io che, su Twitter, l’Isola delle storie abbiamo autonomamente convenuto sull’opportunità di usare il maiuscolo: chiara vi sarà dunque la ragione], «Se non lo faccio, non ho diritto di raccontare» e questo, ha aggiunto, «vale anche per le guerre».

A inizio incontro Giovanni Maria Bellu aveva espresso la convinzione che i problemi dell’informazione italiana siano esplosi e che «la tempestività nel dare le notizie, il fare tanti click, sono diventati valore economico», per cui oggi «manca il tempo di pensare per dare un’informazione accurata». Dunque, Quirico ha idealmente chiuso il cerchio aperto dal collega quando, concludendo, ha affermato che «quello che il giornalista contemporaneo dovrebbe recuperare è il dovere del silenzio. Questo è l’ABC: non “scrivere chi, cosa, dove, come, quando, perché”, né “non scrivere in prima persona”: noi dobbiamo scrivere in prima persona. Altrimenti quello non è giornalismo!».

 

Foto Silvia Onnis

 

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