“Maria donna dei nostri giorni”: un libro non solo per cattolici – 2^ parte

(segue)

Tuttavia, l’aspetto per cui mi azzardo a sostenere che questo libro sia una lettura – almeno potenzialmente – adatta a tutti, compresi gli atei, è la sua sconcertante attualità. Ultimamente, ad esempio, si è discusso molto – con il contributo di  personaggi autorevoli, quali Carofiglio e Zagrebelsky – sull’uso strumentale delle parole, sulla violenza del linguaggio e sulla “incontinenza verbale”. Ed ecco che da queste riflessioni concepite una ventina di anni fa ci arriva, innanzitutto, il consiglio, sempre attuale, di Don Bello di riscoprire il valore del silenzio e di fare un uso misurato delle parole (consiglio che vale a prescindere dal fatto che si voglia seguire o meno l’esempio di Maria, “donna di poche parole”): “Abili nell’usare la parola per nascondere i pensieri più che per rivelarli, abbiamo perso il gusto della semplicità. Convinti che per affermarsi nella vita bisogna saper parlare anche quando non si ha nulla da dire, siamo diventati prolissi e incontinenti. Esperti nel tessere ragnatele di vocaboli sui crateri del “non senso”, precipitiamo spesso nelle trappole nere dell’assurdo come mosche nel calamaio. Incapaci di andare al centro delle cose, ci siamo creati un’anima barocca che adopera i vocaboli come fossero stucchi, e aggiriamo i problemi con le volute delle nostre furbizie letterarie”.

E da lui ci arrivano anche parole che si fatica a credere non siano frutto dell’osservazione di fenomeni recenti:“Ci mettiamo in bocca i più ricercati dentifrici, ma il linguaggio che ne esce è da trivio. L’insulto è divenuto costume. […] Le buone creanze sono in ribasso. Anzi, se in certi spettacoli televisivi mancano gli ingredienti del turpiloquio, sembra che cali perfino l’indice di ascolto”.

Altrettanto vale per le riflessioni sul ritmo frenetico che già allora aveva preso il sopravvento nelle nostre vite, rendendoci distratti nei confronti delle persone che ci stanno accanto e poco attenti a coltivare i rapporti interpersonali.

Pensando poi alla controversa questione della globalizzazione e alle ondate di immigrati che tanto stanno impensierendo l’Italia e l’intera Europa, non si può che restare sconcertati al pensiero che dai tempi in cui questo libro venne scritto non sia cambiato nulla: “Ammassàti sul discrimine da cui si divaricano le culture, siamo incerti se scavalcare i paletti catastali che hanno protetto finora le nostre identità. Le “cose nuove” con cui ci obbligano a fare i conti le turbe dei poveri, gli oppressi, i rifugiati, gli uomini di colore, e tutti coloro che mettono a soqquadro le nostre antiche regole del gioco, ci fanno paura. Per difenderci da marocchini e albanesi ingrossiamo i cordoni di sicurezza. Le frontiere, insomma, nonostante il gran parlare sulle nostre panoramiche multirazziali, siamo più tentati a chiuderle che ad aprirle.”

O ancora: “Viviamo tempi difficili, in cui allo spirito comunitario si sovrappone la sindrome della setta. Agli ideali di più vaste solidarietà si sostituisce l’istinto della fazione. Alle spinte universalizzanti della storia fanno malinconico riscontro i sottomultipli del ghetto e della razza. Il partito prevarica sul bene pubblico; la lega sulla nazione; la chiesuola sulla chiesa”.

La nostra attenzione, però, non si deve fermare alla spaventosa consapevolezza che, dopo due decenni, siamo ancora impantanati negli stessi problemi. Dobbiamo, invece, cogliere il messaggio di speranza di Don Bello, ovvero convincerci che la fede in un’entità positiva – e, a mio parere, poco importa che forma o che nome gli si dia – può donarci la fiducia nel futuro e negli uomini, può farci credere “Che le ingiustizie dei popoli hanno i giorni contati. Che i bagliori delle guerre si stanno riducendo a luci crepuscolari. Che le sofferenze dei poveri sono giunte agli ultimi rantoli. Che la fame, il razzismo, la droga sono il riporto di vecchie contabilità fallimentari. Che la noia, la solitudine, la malattia sono gli arretrati dovuti ad antiche gestioni. E che, finalmente, le lacrime di tutte le vittime delle violenze e del dolore saranno presto prosciugate come la brina dal sole della primavera.” Perché “la gratuità, l’obbedienza, la fiducia, la tenerezza, il perdono”come sosteneva Don Bello – Sono valori che tengono ancora e che non andranno mai in disuso”.


Marcella Onnis – redattrice

marcella.onnis@ilmiogiornale.org

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