Maimonide, uno dei massimi cultori dell’ebraismo

Libro su Mosè Maimonide di Giuseppe Laras

di Ernesto Bodini
(giornalista e critico d’arte)

MaimonideLe memorie storiche, affinché restino tali per essere tramandate, dovrebbero diventare dominio di tutti, soprattutto dei cultori, dei biografi e di quanti intendono prodigarsi per valorizzare questo o quel personaggio, ma soprattutto quanto di meglio ha dato alla collettività del suo tempo… e lasciato ai posteri. Fra questi credo sia “doveroso” ricordare la figura di Moshè ben Maimon (Maimonide), medico ebreo del XIII secolo. Nato a Cordoba nel 1135 (morto in Palestina nel 1204), fu costretto a lasciare la città natale nell’età in cui un bambino ebreo diventa adulto, cioé intorno ai tredici anni: la sua famiglia, come tante altre, era incalzata dalle persecuzioni religiose islamiche indette dagli Almohadi. Per qualche anno si rifugiò a Fez, in Marocco, dove per un lungo periodo adottò una sorta di criptogiudaismo, fingendosi mussulmano. E proprio da qui ebbe inizio la sua carriera intellettuale, coronata da un breve soggiorno in terra d’Israele e dal definitivo trasferimento in Egitto, dove diventò un celebre medico, un rabbino luminare, un filosofo ascoltato dalle diverse fedi. Avrebbe voluto dedicarsi soltanto agli studi, ma la morte del fratello Davide (mercante in pietre preziose, naufragato nell’Oceano Indiano) lo costrinse a trovare i mezzi per sostenere la famiglia. Tornò in Egitto e riprese in mano i manuali di Medicina, divenendo medico, ma senza mai trascurare l’attività letteraria come dimostra la produzione di molte opere e la sua dedizione alla filosofia.

Prolifico e profondo scrittore, appunto, nelle sue analisi relative alla interpretazione della legge ebraica, formulò i dogmi della fede che la tradizione ha da sempre instillato nell’animo ebraico. Scrisse il “Mishnè Torah”, quattordici volumi contenenti la ripetizione di tutte le Leggi ebraiche. Ma l’opera più nota è “La Guida dei Perplessi”, terminata di scrivere in arabo nel 1190 e tradotta in ebraico nel 1204, con la quale cercò di ricondurre costoro, mediante la filosofia, alla certezza della fede. La sua interpretazione riguardava i principali concetti biblici servendosi del metodo aristotelico, anche se non concordava né con Aristotele né con la maggior parte dei cabalisti circa l’esistenza ab aeterno del mondo. «Nella maggior parte dei casi – sosteneva Maimonide – non c’é contraddizione tra fede e ragione, in altri casi anche se la ragione non è in grado di provare alcune verità di fede, può almeno provare l’infondatezza delle tesi opposte». L’organizzazione filosofica dell’ebraismo da parte di Maimonide, notevole figura di riferimento del razionalismo teologico, ebbe una certa influenza sullo sviluppo dell’ebraismo stesso, ma anche sui teologi scolastici cristiani, «Io credo – approfondiva in merito – che il vero metodo che elimina il dubbio consiste nello stabilire l’esistenza di Dio, la sua unità e la sua incorporeità coi procedimenti dei filosofi, fondati sull’eternità del mondo. Ciò non perché io creda all’eternità del mondo o faccia a questo proposito qualche concessione; ma perché soltanto con questo metodo la dimostrazione diventa sicura e si ottiene certezza su tre punti: che Dio esiste, che è uno, che è incorporeo, senza che importi decidere nulla rispetto al mondo, ossia se esso sia eterno o creato…».

Libro su Mosè Maimonide di Giuseppe LarasNello sforzo di conciliare fede e ragione arrivò all’affermazione di libertà: quella di Dio, teologica e metafisica; quella dell’uomo, antropologica, per l’azione e la conoscenza. Sull’Astrologia scrisse due Epistole: la prima, diretta alla comunità yemenita, è tendente a sconfiggere l’idea di un’influenza delle grandi congiunzioni planetarie negli accadimenti storici; la seconda, è dedita ai rabbini di Provenza del 1194, volta a polemizzare con l’astrologia oraria la cui pratica era diffusa nelle comunità ebraiche del mediterraneo, rispolverando l’idea che, tutto sommato, l’astrologia altro non sia astrolatria (culto degli astri). In sintesi, è facile dedurre la profonda intellettualità e profonda cultura del filosofo ebreo che, unitamente al suo sapere dell’arte medica, a mio avviso lo colloca tra i più significativi cultori della “sapienza ebraica”, tant’é che anni fa presso la Comunità Ebraica di Torino diversi sono stati gli incontri di approfondimento, tra i quali “Maimonide e il suo tempo” (prof. Roberto Gatti), “La Guida dei Perplessi” (prof. Giuseppe Laras, nella foto il frontespizio del suo libro), “Il Mishnè Torah” (rabbino Alberto Somekh), “La ricezione successiva” (teologo, Piero Stefani), e “Maimonide: l’attualità del suo pensiero” (prof. Irene Kajon). Un ricco sapere non certo privo di quella saggezza ed amore per l’uomo tanto che, forse non è a tutti nota la sua Preghiera-Giuramento, quale recitazione prima di ogni atto medico, che qui ripropongo.

«La tua Eterna Provvidenza mi ha dato il compito di vegliare sulla vita e sulla salute delle tue creature. Che l’amore per la mia arte possa ispirarmi in ogni istante: che né l’avarizia, né l’avidità, né la sete di gloria o di fama mi distraggano la mente; giacché i nemici delle Verità e della Filantropia potrebbero facilmente ingannarmi e farmi dimentico del nobile fine di giovare ai Tuoi figli. Che io non veda mai in un malato altro che un mio simile che soffre. Concedimi la forza, il tempo, e l’occasione di correggere sempre quello che so; giacché il sapere è immenso e lo spirito dell’uomo può estendersi all’infinito per arricchirsi giorno per giorno di nuove conoscenze. Oggi può scoprire un errore di ieri e domani può far nuova luce su ciò di cui oggi crede d’esser sicuro. Oh Dio, Tu mi hai scelto per vigilare sulla vita e sulla morte delle Tue creature; io sono qui, pronto per la mia missione».

Lungimiranza, saggezza, etica ed amor proprio nonchè per il prossimo a coronamento del suo vasto saper essere; profonde peculiarità d’indole innata che tutti dovrebbero far proprie specie se votati a lenire le sofferenze del prossimo, affinché l’esercizio della Medicina rappresenti una filosofia di vita che richiama quanto sosteneva il patologo e batteriologo Robert Koch, (1834-1910): «Non si può diventare un medico senza esserlo dalla nascita e averci la vocazione! Ci vuole una buona dose di abnegazione per poter adempiere a tale missione. Non c’è niente di più bello che aiutare l’umanità che soffre!»

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