Lo spettacolo delle macerie analizzato da Marco Cubeddu

Marco Cubeddu a L'isola delle storie

Marco Cubeddu a Gavoidi Marcella Onnis

Il pregiudizio, come la paura, tante volte ci impedisce di vivere belle esperienze. Fortunatamente, che Marco Cubeddu avesse partecipato a “Pechino Express” e stesse scrivendo un libro su e con Costantino della Gherardesca l’ho saputo solo dopo aver deciso di seguire il suo reading, in programma lo scorso 30 giugno nell’ambito del XIV festival L’Isola delle Storie di Gavoi. Reading che, peraltro, mi attirava più per il nome (“Lo spettacolo delle macerie. Scrivere mentre tutto crolla”) che per l’artista. Dicevo, però, che l’esser scampata a mia insaputa alle insidie del pregiudizio è stata una fortuna: Cubeddu è, infatti, un ottimo oratore e dietro il suo brillante umorismo ha buona sostanza, ragion per cui questo incontro si è rivelato davvero stimolante e anche più piacevole del previsto.

I brani che ha scelto di leggere – tutti tratti non da suoi romanzi ma da suoi articoli – ruotavano intorno a tre concetti chiave: macerie e fallimento; “terra di mezzo”; bellezza. Chiarisco il secondo concetto, meno immediato: Cubeddu (classe 1987) fa parte di quella generazione – più o meno la mia – che si è formata umanamente negli anni ’90, decennio che ha appropriatamente definito «spartiacque» tra due epoche, non solo per questioni tecnologiche (lui, peraltro, si definisce un «nostalgico analogico») ma per motivazioni ben più profonde. Sono, infatti, gli anni che seguono la caduta del Muro di Berlino, la fine dell’Urss e – almeno formalmente – della sua contrapposizione con l’Occidente, in generale «il crollo dei miti», tra cui lui include pure mestieri e una certa idea di futuro (posto fisso, casa di proprietà…). Uno scenario difficile che, sommato a quell’odierno, non meno difficile, mette in crisi i giovani che, come lui, vogliono dedicarsi alla scrittura.

Più che della scrittura dei libri, però, è stato interessante e istruttivo ascoltarlo parlare della scrittura di sé stessi. [Segnalo che l’accento su “sé” non l’avrei messo se il giorno dopo l’incontro con Cubeddu, sempre al Festival, non avessi appreso da Giuseppe Antonelli che è corretto usarlo anche quando seguito dall’aggettivo “stesso”.] In un articolo sulla sua partecipazione a “Pechino Express”, letto durante il reading, ha dichiarato di aver voluto scrivere il suo personaggio: «Ho scelto deliberatamente di essere uno dei tanti me stesso». E su questo non ho dovuto granché interrogarmi: io sono una, nessuna e centomila. Più riflessione ha, invece, richiesto l’interrogativo che è seguito, seppur posto in forma retorica: «Non è forse la cosa più spontanea fingere di essere spontanei?». A farmi concludere che sì, è proprio così, è arrivato il successivo quesito, stavolta provocatorio: «Siamo capaci di scindere ciò che proviamo da ciò che vogliamo far credere di provare?». Il risultato è quello che Marco Cubeddu ha definito «autofiction»: «Si finisce per somigliare al personaggio che si finge di essere».

Marco Cubeddu a L'isola delle storiePer i concetti di macerie e bellezza – nel titolo del reading uniti in matrimonio dal sostantivo “spettacolo” – lo spartiacque per lui è, invece, segnato dall’11 settembre 2011: con l’attacco alla Torri gemelle, definito dal musicista Karlheinz Stockhausen «la più grande opera d’arte mai realizzata», si fa largo una nuova modalità di rappresentare la bellezza. Scanso equivoci, le considerazioni estetiche di Cubeddu non hanno sminuito la gravità del fatto, anzi, lo scrittore ha espresso la convinzione che «la Terra dovrebbe superare le sue contraddizioni per esprimere al meglio le sue potenzialità», in quanto «è avvinta in un loop di distruzione che lei stessa crea». A partire da quel tragico evento, però, l’arte e lo spettacolo hanno cominciato a interessarsi delle macerie. Non solo: si è creata una tendenza voyeuristica a «riprendere chi riprende la brutalità»: «L’11 settembre è l’ultimo evento tragico non in streaming». C’è, però, una spiegazione accettabile per questa evoluzione (o involuzione, secondo il punto di vista): «Dare un senso emotivo al non senso è lo scopo dell’arte». E forse è anche questa considerazione che gli ha fatto concludere che «nonostante le sue macerie, questo tempo mi sembra un grande spettacolo di cui ho ancora voglia di scrivere». E noi di esserne parte, giusto?

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