L’evoluzione delle tecniche chirurgiche nel campo dei trapianti
di Marcella Onnis
Domenica 2 aprile 2017 si è svolto a Cagliari il convegno “Sardegna, Isola dei trapianti”, organizzato dalla Prometeo AITF Onlus. Dopo il saluto di due familiari di donatori e due interventi di “contestualizzazione” sulla storia dei trapianti e sull’organizzazione che, in Italia e Sardegna, rende possibile questa attività (compresa l’imprescindibile fase della donazione e del prelievo degli organi), si sono succeduti alcuni interventi che hanno descritto il quadro attuale per i trapianti di fegato, pancreas e cuore.
I PROGRESSI DELLA TECNICA CHIRURGICA – Assente per motivi personali, il dr. Fausto Zamboni, primario della Chirurgia generale dell’ospedale “G. Brotzu”, è stato sostituito dalla dr.ssa Laura Mameli, gastroenterologa del Day hospital del suo reparto. Seppur fuori dal suo campo di specializzazione, la relatrice si è mostrata perfettamente all’altezza del compito, riuscendo a essere tecnicamente precisa e, al contempo, chiara anche ai non addetti ai lavori. La dr.ssa Mameli ha ricordato che il primo trapianto di fegato fu eseguito nel 1963 a Denver dal prof. Thomas Starlz (al quale, in occasione della sua recente scomparsa, Ernesto Bodini ha dedicato un omaggio su questo giornale). Da allora sono stati fatti molti progressi che oggi consentono di realizzare ogni anno più di 12mila trapianti di fegato «con risultati eccellenti»: un tasso di sopravvivenza del 90% a 5 anni dall’intervento e del 70% a 10 anni. Il merito – ha spiegato, ribadendo quanto già segnalato dal dr. Ugo Storelli, Coordinatore dei trapianti al “Brotzu” – è dell’introduzione dei farmaci immunosoppressori, che consentono di prevenire il rigetto dell’organo trapiantato, e del miglioramento delle tecniche chirurgiche.
«La prima fase importante è il prelievo dell’organo», anch’esso una tecnica chirurgica, ha precisato la relatrice, specificando che può essere anche multiorgano. Una volta prelevato l’organo, occorre ricostruire le strutture vascolari e anche qui – ha raccontato – gli avanzamenti della tecnica chirurgica sono stati determinanti, in quanto consentono oggi di trapiantare organi che un tempo sarebbero stati inutilizzabili. Tuttavia, la carenza di organi resta tutt’oggi il maggior problema, ha precisato la relatrice, la quale ha poi rimarcato che dietro questi interventi «non c’è solo il chirurgo», ma una serie di professionisti quali cardiologi, radiologi, tecnici di laboratorio, infermieri e, naturalmente, il personale dei Centri nazionale e regionali dei trapianti: «È un lavoro di squadra quello che porta a una rinascita».
I TRAPIANTI DI FEGATO E PANCREAS – Per quanto riguarda il trapianto di fegato, la dr.ssa Mameli ha segnalato due tecniche che hanno permesso di aumentare la disponibilità di organi e, di conseguenza, le vite salvate. La prima è lo split liver (fegato diviso), una tecnica nata negli anni ’80 per rispondere principalmente alla mancanza di organi per i trapianti pediatrici, ha raccontato la relatrice, chiarendo che, comunque, lo split è oggi usato sia per trapiantare un paziente adulto e uno pediatrico che due pazienti adulti. Addirittura, esistono due nomi differenti (e piuttosto brutti, a esser sinceri) per l’intervento che consente di ottenere due metà uguali di fegato (splittone) o una parte più piccola e una più grande (splittino). Il ricorso a questa tecnica, recentemente introdotta anche a Cagliari, è ora obbligatorio in Italia per i fegati di donatori con meno di 50 anni di età a rischio standard, ma – ha precisato la dr.ssa Mameli – presenta alcuni limiti tecnici, in particolare richiede condizioni ottimali per l’organo e per il ricevente. La seconda tecnica descritta in dettaglio dalla relatrice è la donazione da vivente, che invece non viene (ancora?) eseguita a Cagliari. Introdotta anche questa negli anni ’80 per i trapianti pediatrici, è stata estesa ai trapianti di pazienti adulti e, pur essendo tuttora utilizzata in misura minore rispetto alla donazione da cadavere, è in crescita (nel 2005 ha raggiunto il 25% del totale dei trapianti di fegato). Agli amanti dei numeri interesserà, inoltre, sapere che il Centro trapianti di fegato di Cagliari, dal marzo 2004 (quando fu eseguito il primo intervento) a marzo 2017 ha realizzato ben 325 trapianti, di cui uno split.
Lo stesso Centro, ha raccontato la dr.ssa Mameli, esegue anche il trapianto di pancreas, che può essere di pancreas isolato, simultaneo di rene e pancreas o successivo al trapianto di rene. La relatrice ha spiegato che a questo intervento si ricorre per i malati di diabete mellito di tipo 1, che in Sardegna registra il maggior numero di nuovi casi all’anno: un’informazione che ha comprensibilmente creato un certo allarme tra il pubblico. A oggi il Centro di Cagliari ha eseguito 34 trapianti di pancreas isolato e 32 di rene-pancreas.
I TRAPIANTI DI CUORE – Se per i trapianti di fegato si possono mettere in mostra grosse cifre, altrettanto non accade per i trapianti di cuore, che sono numericamente i più bassi, ha subito premesso il dr. Emiliano Cirio, Primario della Cardiochirurgia dell’ospedale “G. Brotzu”. Tra le ragioni principali di questo divario, ha spiegato, vi è il fatto che l’insufficienza cardiaca diventa sempre più frequente, ma i donatori restano pochi e in più devono essere giovani, affinché il cuore sia in condizioni ottimali. Inoltre, «non è possibile la donazione da vivente, per ovvie ragioni» né è possibile ricorrere allo split. Il primo trapianto di cuore fu eseguito dal prof. Christiaan Barnard nel 1967, ha ricordato il dr. Cirio, precisando che, purtroppo, il paziente sopravvisse solo per 18 giorni ma che la morte non sopraggiunse per rigetto, bensì per un’infezione. Quest’epilogo tragico – ha raccontato ancora – provocò una battuta d’arresto per i trapianti di cuore, che ripresero solo negli anni ’80, in seguito al miglioramento dei criteri di selezione dei riceventi e all’introduzione dell’uso della ciclosporina. Proprio in quel periodo, ha precisato il relatore, questo tipo di intervento è diventato la cura standard per la cardiopatia terminale. In Italia il primo trapianto di cuore è stato realizzato nel 1985; in Sardegna, invece, il primo è stato eseguito nel 1989 e solo nel 2000 è stato eseguito il primo trapianto combinato di cuore e rene. Da allora nell’Isola sono stati riportati alla vita 203 pazienti cardiopatici, per la maggioranza uomini (precisamente 163).
Ritornando al punto di partenza, il dr. Cirio ha poi spiegato che i criteri per la valutazione della compatibilità tra donatore e ricevente sono più semplici che per altri organi: è necessario che ci sia compatibilità del gruppo sanguigno e che il peso corporeo sia più o meno simile, mentre minor rilevanza hanno l’età e il sesso. Tuttavia, ha precisato, il donatore standard è quello di età inferiore ai 50 anni perché garantisce una migliore qualità dell’organo e, quindi, una maggiore aspettativa di vita nel post-trapianto. Anche in questo caso i numeri contribuiscono a rendere meglio l’idea: con un donatore standard la sopravvivenza del paziente si registra nell’81,7% dei casi a un anno dal trapianto e nel 68,4% a 5 anni; le percentuali con donatori over 50, invece, crollano, rispettivamente, al 65,7% e al 48,4%. Maggior stupore ancora ha, però, creato sentirgli dire che «il vero cut-off sono i 40 anni» e che «il donatore modello è quello di 30-35 anni». A questo poco confortante quadro, si aggiunge il fatto che la “tenuta” di un cuore trapiantato non è elevata: solo il 50% raggiunge i 15 anni di sopravvivenza e la principale causa di morte per questi pazienti è la neoplasia.
LA VAD E LE NUOVO FRONTIERE – Tuttavia, un barlume di speranza c’è anche in questo campo: il dr. Cirio ha raccontato che sono in corso alcune ricerche finalizzate ad ampliare la disponibilità di organi, anche utilizzando quelli di animali. Il progresso tecnico, inoltre, sta consentendo di ovviare in parte a questa carenza, in particolare grazie alla VAD (ventricular assist device): si tratta di una pompa meccanica per l’assistenza ventricolare cui si ricorre in attesa del trapianto (o della valutazione sull’idoneità del paziente a essere sottoposto a questo intervento) oppure come terapia alternativa, quando questo intervento non è praticabile. Il dispositivo si applica sul cuore malato e all’esterno è visibile solo per la presenza di un cavo per l’alimentazione elettrica, che fuoriesce dal petto e collega la VAD alla batteria che la alimenta. Quest’ultima ha oggi ridotte dimensioni per cui, ha chiarito il relatore, consente al paziente di praticare una vita normale. Anche a Cagliari, ha annunciato il dr. Cirio, si sta avviando il programma VAD, ma perché questo funzioni occorrono, in particolare, fondi dedicati, formazione specifica e spirito di abnegazione del personale, un’organizzazione impeccabile e coinvolgimento dei familiari del paziente e del medico di base.
Quanto ai trapianti di rene, in quest’occasione non è stato possibile fare il punto sullo stato dell’arte: il dr. Mauro Frongia, Primario dell’Urologia dell’ospedale “G. Brotzu”, non ha, infatti, potuto partecipare al convegno come relatore in quanto il giorno prima la sua équipe ha realizzato ben due trapianti.
NON DIMENTICHIAMO GLI INFERMIERI! – L’intervento della dr.ssa Bruna Dettori, Dirigente delle Professioni sanitarie dell’ospedale “G. Brotzu”, è stato utile, innanzitutto, per ricordare che dietro un trapianto non ci sono solo chirurghi e altri medici, ma anche altro personale sanitario, a partire dagli infermieri. E anche loro, ha precisato la dr.ssa Dettori, devono essere specificamente formati per quest’attività. Il coordinamento infermieristico, ha spiegato, inizia a seguire il paziente dal pre-trapianto, lo affianca durante il trapianto e continua a seguirlo nel post-trapianto. Ognuna di queste tre fasi richiede un particolare impegno per gli infermieri. Nel pre-trapainto, per esempio, il paziente deve affrontare una serie di visite ed esami che dura circa 30-45 gg per cui «è fondamentale fargli conoscere cosa lo attende». Così come è fondamentale fornirgli tutti i recapiti utili («perché mai deve avere la sensazione di essere stato abbandonato») ed educare sia lui che la sua famiglia affinché apprendano le buone regole da seguire quando si è in attesa di un nuovo organo. Il compito dell’infermiere, però, non è solo informativo: «Spesso il paziente si scoraggia, per cui va motivato», anche se in tale compito la figura principalmente coinvolta è lo psicologo (ruolo che all’ospedale “Brotzu” viene egregiamente svolto dalla dr.ssa Fabrizia Salvago). Non solo: oltre a informare e sostenere moralmente il paziente, gli infermieri risolvono pure problemi logistici, soprattutto per i pazienti e familiari che vengono da lontano.
Conclusa questa fase, ha spiegato la relatrice, l’équipe fa un bilancio per valutare se è possibile inserire il malato in lista di attesa, la quale – ha precisato la dr.ssa Dettori – non è statica ma «è in continuo movimento», in quanto tiene conto delle condizioni cliniche dei pazienti che vi sono inseriti. Se il responso è positivo, si procede con il consenso informato, una fase delicata in cui il Codice deontologico prevede espressamente la partecipazione dell’infermiere. Al momento in cui è disponibile un organo, avviene la fatidica Chiamata, quella che ogni trapiantato ricorda perfettamente anche a distanza di anni: anche questa fase – così carica di emozione, senza dubbio non solo per chi quella chiamata la riceve ma anche per chi la fa – deve, però, seguire un preciso protocollo. In particolare, l’infermiere deve innanzitutto verificare lo stato di salute del paziente e assicurarsi che non siano sorte controindicazioni al trapianto. Se non sussistono impedimenti, deve domandargli dove si trova e con chi, quindi può finalmente comunicargli la disponibilità dell’organo, indicandogli anche il tempo che ha a disposizione per raggiungere l’ospedale: il numero di ore varia a seconda del luogo in cui si trova, ma chiaramente è sempre ridotto perché, una volta prelevato, l’organo deve essere trapiantato entro un certo lasso di tempo. Perché questa tempistica possa essere rispettata, però, è necessario che il paziente sia già stato informato su ciò che deve aver sempre pronto in valigia, ha precisato la dr.ssa Dettori. Da questo momento si apre una fase complessa e abbastanza frenetica che coinvolge numerose figure professionali: medici, operatori del Centro regionale trapianti, ma anche – ha ricordato la relatrice – personale ausiliario, autisti, Forze dell’ordine…. Con tutti loro si interfaccia l’infermiere coordinatore clinico.
Dopo l’intervento, si apre l’ultima fase che, però, non include solo la degenza in Rianimazione e in Semintensiva, la cui durata va dai 5 ai 10 giorni). Le dimissioni, in particolare, sono «un momento delicato», ha rimarcato la dr.ssa Dettori, spiegando che se da un lato il paziente è felice di tornare a casa, dall’altro ha anche «paura di lasciare un luogo che gli dava sicurezza». Ancora una volta, dunque, diventa fondamentale che l’infermiere lo faccia sentire assistito e gli fornisca, con correttezza e completezza, le informazioni di cui ha o potrebbe aver bisogno. Medici e infermieri continuano, però, ad avere un ruolo nella vita del trapiantato anche dopo le dimissioni perché questi deve sottoporsi a controlli periodici. Tuttavia, ciò non significa che sia ancora malato: la dr.ssa Dettori ha chiarito che il trapiantato di fegato, in particolare, deve rispettare alcune regole, a partire dall’assunzione con costanza della terapia e dall’adozione di corrette abitudini alimentari, però può lavorare e svolgere attività fisica. La relatrice ha, quindi, concluso l’intervento ricordando anche lei che «l’insieme del personale che si occupa di donazioni e trapianti è una grande famiglia, ma» ha subito precisato «protagonisti non siamo noi: sono i donatori e le loro famiglie».
Foto Prometeo AITF Onlus
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