L’angolo di Full: “Il soprano”

soprano

Anche questo racconto del Maestro Full è stato nominato miglior racconto della settimana sul sito letterario russo fabulae.ru, dov’è stato pubblicato con la traduzione di Галина Ланскиx.
Siamo certi che anche voi, come i lettori russi, lo apprezzerete molto.

 

Il soprano

Le avventure amorose di Efisio, in arte Max, maturo tombeur des femmes.

soprano        Il soprano Clelia Rampazzi, detta “la Ricciarelli” per via della comune impostazione della voce e del bacino, camminava lentamente davanti a lui. Per quanto matura, rimaneva una autentica, purissima ginoide o, secondo il vocabolario di Efisio, una gran chiappona. Inoltre, certi lampi fra le ciglia e talune movenze feline della signora, avvaloravano l’ipotesi che, a quel tavolo, qualcuno banchettasse ancora allegramente.
La sana passione di Efisio per le donne giunoniche, era sorta anni addietro durante un tour in Inghilterra che l’aveva impressionato per la straordinaria imponenza delle cattedrali, dei parchi urbani e dei sederi. Questi ultimi, in quantità che non avrebbe più incontrato, sia come numero che come volume complessivo –calcolato con la formula della sfera inscritta nel diedro–.

«Potremmo sgranchirci le gambe sul lungolago» propose Efisio –in arte Max– con gli occhi sul fondo schiena della signora e la testa in Inghilterra.
Ecco di cosa aveva bisogno quella sera, di sgranchirsi, di stirare gambe cuore e cervello passeggiando sottobraccio a una donna morbida e dalla voce melodiosa come certe belle canzoni di una volta. Una donna ancora attraente e sensuale, simpatica e disinteressata. Non le confidò alcuna di queste considerazioni che tuttavia trasparivano da ogni suo gesto, da ogni espressione, dalla sua voce. Ed è questo il vero segreto del tombeur: un atteggiamento genuino e sincero, perché le donne non sono sceme.
Passeggiarono a lungo, quasi senza parlare. Il buio incombeva ormai e il lago reggeva un luccicante strascico alla montagna punteggiata di luci mentre, nelle aiuole, i bassi cespugli tondeggianti sembravano docili animali addormentati. Quando raggiunsero la fontana della vergine, lui aspettò che il gorgoglio dell’acqua si modulasse in una sorta di preludio musicale e porse la sua magica, segreta, infallibile frase: «Quant’è bella madame!»
Lei tacque. Per quanto abituata ai complimenti, era stupita da quel tono schietto, persino ingenuo, e non sapeva bene cosa dovesse rispondere o fare. Così si comportò impulsivamente come aveva fatto forse la sua prima volta, stringendosi un po’ di più all’uomo e lasciandosi stringere un po’ di più. E Max si accorse del corpo sinuoso, tiepido, palpitante che aveva fra le mani. Sentiva il respiro di lei accelerare, a ricordargli i lontani incontri giovanili con le donne ardenti della sua terra, delle quali ritrovava i profumi, gli atteggiamenti. Nessun ricordo, invece, serbava delle brevi conquiste di tombeur che confondeva fra loro, se buone, o cancellava se cattive.

In breve decisero di raggiungere la vicina casa di lei, sulla strada per Porlezza, poco oltre il confine svizzero. Clelia aveva una vecchia e scassata BMW e Max la seguì con la sua Alfa.
Dopo la frontiera lasciarono la sponda del lago e raggiunsero un paesino appisolato fra i monti. “Ci sto il meno possibile. Qui, dopo le tre del pomeriggio sbaracca anche il sole” gli aveva confidato Clelia.
Abitava l’appartamento al primo piano di una graziosa casetta alpina con tanto di gerani e di ante in legno intagliato. L’interno dell’appartamento appariva più moderno e piuttosto polveroso anche per la gran quantità di oggetti e oggettini, dei quali, nessun cimelio che ricordasse la modesta carriera lirica della donna. “La Ricciarelli” non si celebrava e non si commemorava.
L’aria frizzante risvegliò l’appetito di entrambi e la donna sparì per pochi minuti al piano di sotto dove si procurò una piccola forma di formaggio locale, un profumato pane casereccio e una bottiglia di vino rosso. Si sedettero al tavolo sgombro della cucina e si servirono usando un coltello quale unica posata e suppellettile. Si guardarono:  avevano tutto quanto serve alla felicità.

Parlarono a lungo, amabilmente, cosa che lei faceva aiutandosi molto con gli occhi che teneva costantemente in quelli di Max, variando di continuo luminosità e profondità come si fa quando si prova un binocolo. S’erano trasferiti sull’ampio divano del soggiorno e in breve, il peso dell’ora tarda, del vino e … degli anni li abbracciò in un languido torpore.
Si svegliarono che era notte, ormai, e fecero l’amore con grande trasporto.

Max aprì gli occhi alle nove del mattino in una cameretta col soffitto a mansarda e piccoli mobili laccati verde mela. Si guardò intorno stranito, ma le morbide impronte sul lenzuolo e sul cuscino accanto, gli diedero subito l’orientamento. Dalla finestra spalancata entravano i rintocchi di una campana lontana e il sole si stava ritagliando tutto il pavimento. S’alzò e andò ad affacciarsi su di un grande prato digradante e bordato da una svolazzante cornice di tendine in mussola bianca.
Se c’era un paradiso l’aveva trovato, almeno sino alle tre del pomeriggio quando, ammoniva Clelia, anche il sole sbaraccava.
Si sentiva svuotato, preda d’una stanchezza infinita mentre la donna, infilata in un camicione di cotone indiano, faceva la spola fra il soggiorno e la cucina brigando con la teiera, il fornello, le fette biscottate, la marmellata e chissà cos’altro. Piena di energie come se avesse fatto otto ore filate di sonno: una diavolona.

Più tardi uscirono. A Lugano presero un battello sul quale pranzarono divertendosi a buttare ai gabbiani il modesto menù di bordo sotto lo sguardo severo di un maitre vestito da ammiraglio. Si divertirono come bambini e infine rientrarono da lei. S’era fatto tardi e s’avvicinava quatto il momento del commiato.
«Sarà bene che non ci si riveda» esordì Clelia cercando una nota serena nella sua bella voce impostata, ma l’imbarazzato silenzio che ne seguì, la indusse a suonare un diverso spartito:
«Con un tipo come te potrebbe saltarmi il controllo, e poi ho un pessimo carattere: so essere dura come nemmeno t’immagini».
«Veramente, oggi m’hai dimostrato il contrario», s’oppose Max.
«Non contarci, mia mamma diceva che sapevo essere molto buona, ma che non riuscivo a mantenermi tale per più di due ore. E la stessa cosa ripeteva la mia maestra di pianoforte».

Sino a qualche anno prima, la tipa ideale per Max era quella che, dopo una notte d’amore, si defilava senza rompere le palle. Ma ormai era entrato nell’età in cui si continuano ad apprezzare le chiappe, ma si accarezzano le mani e gli sguardi.
Così pensò che se le avesse fatto qualche improvvisata ogni tanto, magari un po’ prima che il sole sbaraccasse, sicuramente lei sarebbe stata molto buona per un paio d’ore, come assicuravano la sua  mamma e la maestra di pianoforte. E come prometteva la svolazzante cornice di mussola bianca attorno alla sagoma rimasta immobile alla finestra, mentre lui s’allontanava con l’Alfa.

fulvio musso     Intanto, curva dopo curva, quel candido lino svolazzante si gonfiava come vela nel cuore di Max, attento a memorizzare il percorso. Lui ch’era abituato a sparire dopo ogni avventura d’amore, si scopriva sempre meno legato a quella sua inesorabile essenza di tombeur des femmes.

Intanto, curva dopo curva, quel candido lino svolazzante, era ormai una piccola vela all’orizzonte, nient’altro che un minuscolo apostrofo bianco nel cuore di Clelia, abituata a sparire dopo ogni avventura d’amore, prigioniera della sua inesorabile essenza di “tombeuse des hommes”.

Fulvio Musso

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