L’angolo di Full: “La signora Eufemia”

Eufemia

EufemiaLa signora Eufemia

Era una lucida mattina di vento, di quelle che sembrano chiudere una stagione per cominciarne un’altra dopo aver cambiato i fondali e le luci. Distesa sotto la vasta terrazza prospiciente la piazza del Duomo, la campagna aveva smesso i colori e la patina caliginosa dell’estate per vestirsi di un verde più intenso, appena sfumato d’azzurro lungo l’orizzonte. Avrei voluto un segnale altrettanto nitido che indicasse una stagione nuova anche per me, a soffiar via le mie caligini esistenziali.

L’uomo appoggiato alla balaustra di pietra, in quell’ora insolita, non poteva essere che Malpiga, inconfondibile per la sagoma massiccia dentro la giacca sbilenca e i pantaloni sformati.
In paese lo chiamavano semplicemente “lo scrittore” anche per la confusione generata dal fatto che si firmasse con un nome diverso da quello anagrafico. Poteva avere sessant’anni e lo si vedeva poco in giro. Ero forse il solo a sapere qualcosa di lui: si chiamava Ambrogio Malpiga e scriveva con lo pseudonimo Reno. S’era trasferito in paese da quando, alcuni anni prima, aveva perso la giovane moglie. Credo che sopravvivesse grazie ad una piccola rendita, ma che vivesse per il gusto di quanto gli restava della sua professione, cioè qualche rubrica su giornali poco noti.
Mi sedetti sul parapetto a qualche metro da lui, rispettoso di una sua  vecchia osservazione: “Un buongiorno sparato in corsa non ti sfiora nemmeno mentre il miglior convenevole é la dedica di un attimo, possibilmente in silenzio: significa offrire un granello della propria vita”.
Dopo qualche minuto venne a sedersi accanto a me e si complimentò per un mio racconto che aveva trovato casualmente in un sito letterario del web: «Ma… attento alle trappole per tropi», mi ammonì citando Montale e centrando il mio vezzo di indulgere alla tropologia, cioè un linguaggio molto figurato. Ne convenni: «A volte, il tropo stroppia».
Mi rivolse una smorfia che voleva essere un sorriso: «Peraltro, è una trappola che uso anch’io, a volte torna utile».
Approfittai di quella buona vena per chiedergli l’argomento della sua prossima pubblicazione. Si strinse nelle spalle:
«Non c’é più un cazzo in questa testa mentre le scadenze sono sempre in agguato dietro i cespugli».
Probabilmente ricordò che lo consideravo un maestro perché volle beneficiarmi di una spiegazione: «Sei nella condizione migliore per scrivere quando vivi con una persona che ti concede l’essenziale; cioé di amarla. Ma che é tanto sballata da lasciarti completamente solo dentro.Ti resta abbastanza sofferenza da ingrassare lo spirito, ma ti conservi un’ancora, un bel blocco di ferro che t’impedisce di andare alla deriva.»
Si voltò a guardare lontano. La sua ancora era in fondo all’oceano.
Per simpatia, ma anche perché ne ero convinto, obbiettai che i suoi articoli erano sempre molto interessanti.
Mi puntò addosso uno sguardo così pungente da sembrare cattivo: «I miei brani, dici? Li copio. Semplicemente e spudoratamente.»
La rivelazione mi lasciò senza espressione né parole, mentre lui traeva di tasca alcuni fogli spiegazzati:
«Qui c’è l’articolo della prossima settimana.»
«Ma dove li ha scovati?» chiesi un po’ imbarazzato.
«Discarica comunale, cassonetto azzurro: carta e cartone. Dagli un’occhiata.»
Cominciai a leggere a mezza voce un brano dal tono cattedratico e… noioso:

    “GLI EUFEMISMI. Il nostro linguaggio è infarcito di eufemismi convenzionali il cui significato retorico è solo apparente.L’eufemismo convenzionale non ha senso perchè si sostituisce al termine originale assumendone, in breve, identico significato. In realtà, ciò che dovrebbe attenuare l’asprezza di un termine, al servizio della tolleranza e della comprensione è solo una maschera dell’ipocrisia….”

Malpiga m’interruppe: «Quello non centra, vai alla pagina dopo, l’ho  riscritto in parte.»
La pagina seguente era zeppa di cancellature e aggiunte a matita. Ripresi la lettura da quello che mi sembrò l’inizio:

    “LA SIGNORA EUFEMIA
Il termine ‘disgraziato’, che accomunava pietosamente pazzi, sciancati e miserabili, era di origine religiosa; intendeva ‘portatore di disgrazia’ e, fatalmente, cadde  in disgrazia.
La signora Eufemia, eminente burocrate incaricata dall’apposito ente, rimpiazzò l’arcaico ‘disgraziato’ con una serie impressionante di termini che si succedevano con frenesia proporzionale alla loro assuefazione: da ‘handicappato’ a ‘minorato’, a ‘invalido’, a ‘disabile’, a “diversamente abile’, e così via.
Geneticamente megalomane, la signora Eufemia diede a questi termini il suo stesso nome chiamandoli eufemìe o eufemismi e poichè tendono a sostituirsi al significato originale, hanno vita breve. Così ‘l’audioleso’ si trasforma presto in ‘non udente’ che, accoppiato al ‘non vedente’, evidenzia la… galoppante fantasia della signora Eufemia.
Il povero di cervello viene trascinato in un carosello frenetico: da  ‘ritardato mentale’, a ‘minorato psichico’, a ‘subnormale’, a ‘malato di mente’, a ‘psicolabile’…  e così via.

La zelante signora Eufemia invase ben presto ogni settore: candidi vecchietti vengono traslocati dal rassicurante ‘ospizio’ alla ‘casa di riposo’ che, con qualche inquietudine, lascia loro intravedere quello eterno. Al poveraccio si tolgono anche gli ultimi spiccioli qualificandolo ‘nullatenente’. Agli infermi senza speranza, la signora ricorda l’incombente capolinea definendoli ‘malati terminali’, mentre le vittime dell’alcool, battezzate ‘etilisti’, vengono confinate direttamente negli idrocarburi: con l’etile di etano, appunto.
L’infaticabile signora Eufemia è molto attiva anche nelle questioni razziali. I mulatti e i meticci, compresa la ‘creola dalla bruna aureola’  (frutto di atti d’amore valicanti i confini delle razze) vengono accomunati da un termine brutale nella sua genericità e banalità, cioè ‘gente di colore’ che, in effetti, rimarca il solco: i bianchi di qua e i colorati di là. Come nel bucato.
Intanto, la miseria di una metà del mondo ingrassa l’indifferenza dell’altra metà che, tuttavia, s’ostina a chiamare ‘neri’ i negri affinché crepino di fame senza offendersi……”

fulvio musso«Che te ne pare?», m’interruppe Malpiga.
«Veramente, questo brano è del tutto diverso da quello originale… lei non ha copiato un bel niente!», dissi convinto e… sollevato, «lei ha riciclato mirabilmente un modesto rifiuto del cassonetto.»
Sembrò stupirsi del mio parere favorevole, tanto che mi tolse di mano i fogli come a voler verificare la consistenza della mia opinione.
Poi la sua attenzione deviò verso l’edicola dove un furgone stava scaricando i quotidiani freschi di stampa mentre il paese si svegliava e le prime botteghe alzavano le serrande spalancando sulla piazza le loro fauci voraci. Seguii con lo sguardo la figura asimmetrica del Malpiga che s’allontanava con l’andatura dondolante di un barcone alla deriva. E guardinga, forse a causa delle scadenze che lo insidiavano fra i cespugli. Teneva sotto braccio quei fogli sgualciti… cioè la signora Eufemia, che incedeva al suo fianco impettita e austera. Ignara d’essere incappata, senza scampo, nella sua micidiale “trappola per tropi”.

Fulvio Musso

1 thought on “L’angolo di Full: “La signora Eufemia”

  1. Stupendo!
    Una sottile ironia in un quadro d’autore.Complimenti, sempre un piacere leggerti.
    Buona domenica

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