Violenza sulle donne: “La voce addolorata” non trova ancora consolazione

di Marcella Onnis

Lo scorso 25 novembre in tante parti del mondo è stata celebrata la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Anche a Cagliari, naturalmente, lo si è fatto in diversi modi: c’è stato chi, per esempio, ha esposto scarpe rosse, divenute simbolo di questa battaglia, nel Largo Carlo Felice e chi ha organizzato incontri a tema. Tra questi, La voce addolorata, proposto alla Cittadella dei musei dal Dipartimento di Filologia, letteratura e linguistica dell’Università di Cagliari. Letture e un dibattito sul tema “Come t’invento la donna. Costruzioni, de-costruzioni, distruzioni” per raccontare, con efficace sintesi, come la donna sia stata rappresentata nell’arte, a partire da Euripide, «primo a “inventare” la donna», fino ad arrivare ai giorni nostri. «È il nostro modo di esporre i fiocchetti rossi» ha spiegato la prof.ssa Patrizia Mureddu, una delle organizzatrici. Un modo sicuramente poco eclatante e “mediatico”, ma molto istruttivo, come hanno avuto modo di scoprire le donne (tante e di tutte le età) e gli uomini (decisamente in minoranza, ma fortunatamente presenti) che vi hanno assistito.

Euripide, come accennato, è stato il punto di partenza e, trattandosi di un drammaturgo, sarebbe stato un delitto non farlo leggere da un attore. E delitto non fu poiché il dibattito è stato introdotto da Gaetano Marino, che ha prestato la sua voce alle donne di Troia che nella terribile guerra che infiammò la loro città persero gli affetti ma anche casa, ricchezze, onore, libertà e dignità. Attraverso i brani scelti (Ecuba, vv. 445-483 e 905-951; Troiane, vv. 635-782 e 1060-1122, Andromaca, vv. 394-500 e 1109-1146) e “montati” dalla prof.ssa Mureddu, Marino ha espresso il loro dolore ma anche il loro amore, la loro fierezza, la loro rabbia e la loro follia, figlia della disperazione.

Tra queste figure femminile spicca Andromaca, vittima di un Destino particolarmente crudele: suo marito, il grande Ettore, viene ammazzato da Achille, che ne trascina il corpo esanime sul campo di battaglia , sotto gli occhi dei genitori; il figlio che lei ha avuto da Ettore, Astianatte viene anche lui ucciso, bambino, dagli Achei; Neottòlemo, figlio di Achille, la sceglie come concubina; dalla loro unione nasce Pergamo, che Ermione, moglie legittima di Neottòlemo, ucciderà con la complicità di Oreste. Ma Andromaca è anche un modello di femminilità “tradizionale”, che coincide – come ha evidenziato la prof.ssa Mureddu – con quel «cliché che negli anni ’50 era quasi imposto»: sposa fedele anche dopo la morte del marito («Dicono che una notte basti/a placare in una donna l’avversione/per il letto d’un uomo… a me ripugna/colei che rifiuta lo sposo d’un tempo, /che,in nuove nozze, volge il suo amore ad un altro./Persino la puledra, separata dall’antica/compagna di giogo, non vuolepiù tirare il carro,/eppure è una bestia, incapace di parlare,/senza l’uso di ragione, inferiore per natura…») e madre pronta a sacrificare la propria vita per salvare quella di suo figlio («Menelao ha deciso, vuole ora uccidere lui o me…/No, certo no, per la mia povera vita:/ogni mia speranza risiede in lui, se si salva,/è per me un’onta, non morire per mio figlio!/Ecco, lascio l’altare, sono a tua disposizione,/da sgozzare, uccidere, legare, impiccare./Figlio mio, tua madre, perché tu non muoia,/va incontro all’Ade […]»). Una donna che ha scelto il suo modo di essere donna, ma che non condanna chi fa scelte diverse … forse perché un po’ le rimpiange: «Tutti i compiti di una sposa assennata,/ecco com’ero occupata, nella casa di Ettore./E invece (giusto o no che sia, biasimare/le donne, per questo) quel che procura/la mala fama, l’andarsene in giro,/non ci pensavo mai, me ne stavo a casa:/e nelle stanze non facevo entrare/le seducenti chiacchiere femminili,/mi affidavo al mio buon maestro/che abitava con me, al mio senno.» Non solo: la storia di questo personaggio ci ricorda che da sempre la violenza subita dalle donne colpisce anche i loro bambini.

Ed ecco il lamento di Andromaca interpretato da Gaetano Marino:

Euripide, dunque, si interessa delle donne, anche se – ha ricordato la prof.ssa Mureddu – non è stato il primo a parlarne nelle sue opere: già autori come Eschilo e Sofocle l’avevano fatto. Tuttavia, mentre le loro erano «uomini con nomi di donna», lui cerca di penetrare la psicologia femminile e per farlo è pronto anche a modificare il mito (in verità, non è stato l’unico a piegarlo ai propri fini, ha evidenziato la docente di Lingua e letteratura greca). Tramite Andromaca, ad esempio, vuole capire come una donna possa sposare il figlio dell’uccisore del marito e amare il figlio nato da questa “unione maledetta”.  Per Euripide la donna è strettamente legata al concetto di maternità e questo l’ha portato ad essere considerato un misogino, così come la sua concezione dell’approccio femminile all’amore. Una concezione che, però, risente del contesto storico, come ha chiarito la relatrice: all’epoca, infatti, la donna era un universo, anche fisico, in buona parte sconosciuto, persino per i medici, che non le assistevano. E se la realtà non la si conosce, la si inventa, così per gli uomini greci, persino quelli istruiti e “illuminati”come Aristotele, le donne, essendo destinate a diventare madri, hanno una carica sessuale fortissima, soprattutto nel periodo fertile, più forte di quella degli uomini. Euripide si è concentrato proprio su questo aspetto, come appare evidente con i personaggi di Fedra o Medea: la prima si innamora del figliastro Ippolito e, nella prima versione della tragedia, addirittura si dichiara a lui (ma questa “scostumatezza” provocò lo sdegno del pubblico – ha raccontato la prof.ssa Mureddu – così  l’autore dovette scriverne una seconda versione, che è poi quella a noi tramandata); la seconda, folle di gelosia dopo l’abbandono di Giàsone, uccide i figli che con lui ha concepito.

Il secondo intervento, quello della prof.ssa Annamaria Loche, ha comportato un notevole salto nel tempo, per arrivare alla seconda metà del Settecento e analizzare la figura femminile tratteggiata dalla filosofa e scrittrice Mary Wollstonecraft, Insieme a Olympe de Gouges è considerata «tra le prime teoriche del femminismo», intendendo questo come «l’idea delle donne sulle donne». Entrambe hanno, infatti, redatto delle dichiarazioni dei diritti delle donne e – ha spiegato la docente di Filosofia politica – vedevano il matrimonio come uno strumento per tenere in soggezione le donne. Come uscire da questa condizione di subalternità, dunque? Per propria mano, sostenevano entrambe. Per la Wollstonecraft il mezzo è l’educazione, che consente di acquisire l’indipendenza economica e, soprattutto, l’autonomia di giudizio. Le destinatarie del suo messaggio politico-sociale erano le donne delle classi medie, colte o che dovessero comunque acquistare l’indipendenza. Colta è anche la protagonista del suo primo romanzo, Mary: A Fiction, che descrive il matrimonio come una gabbia, che si ribella alle convenzioni, anche avendo un’esperienza omosessuale (particolare decisamente all’avanguardia, se si considera che il romanzo è datato 1788), ma poi, sconfitta, vi si piega nuovamente. Il secondo romanzo rimasto incompiuto, Maria: or, The Wrongs of Woman, si occupa, come suggerisce il titolo, esplicitamente delle ingiustizie subite dalle donne a prescindere dalla loro condizione sociale. L’opera – ha spiegato la prof.ssa Loche – spicca per il fatto che l’autrice mostra come le donne stesse, non solo gli uomini, considerino naturale il fatto di essere sottomesse, perché «la società vuole questo» e loro «vi si adattano». Non solo: nel secondo romanzo prosegue la sua critica all’istituto del matrimonio, che per lei non è affatto un contratto tra pari. Per comprendere la portata di queste affermazioni, anche in questo caso, è utile conoscere il contesto storico, per questo la relatrice ha ricordato che all’epoca, in Inghilterra, le donne potevano ottenere il divorzio solo se venivano picchiate dal marito.

La prof.ssa Paola Boi, docente di Letterature angloamericane, ha trasportato i presenti in tempi più recenti e luoghi più distanti: Ciudad Juarez (Messico), primi anni ’90. Lo ha fatto per parlare degli omicidi seriali di donne che in quegli anni vennero alla luce. Le centinaia di casi sono a tutt’oggi in gran parte irrisolti e impuniti, anche perché i Governi che si sono succeduti nel tempo hanno cercato di insabbiarli. Tra le ipotesi possibili riti di iniziazione delle gang o omicidi per puro divertimento. Ma quale che sia stata la motivazione “formale” l’orrore che desta il disprezzo per la donna manifestato dagli assassini rimane un punto fermo. Basti pensare che molte di queste vittime furono uccise dopo aver subito violenze e mutilazioni. La scia di morte, peraltro, ha coinvolto anche alcuni giornalisti e fotografi colpevoli di aver “ficcato il naso” in questa storia. Anche molti artisti se ne sono occupati dando vita ad opere letterarie, teatrali e cinematografiche. Ne parla pure Roberto Bolaño  nel suo 2666. Ad oggi in Messico risultano ancora 400 donne scomparse che potrebbero aver fatto la stessa tragica fine delle vittime già ritrovate. La violenza di genere, inoltre, è ancora diffusissima. Se ci spaventa la media italiana di una donna uccisa ogni 3 giorni, quella messicana – citata dalla docente – è ancora più sconvolgente: le donne uccise sono in media 4 al giorno. E se questi dati fanno paura, non rassicura sapere che «il 70% delle donne nel mondo ha subito o subirà esperienze di violenza».

Il viaggio nelle “costruzioni, de-costruzioni, distruzioni” della figura femminile si è concluso con i giorni nostri, per voce della prof.ssa Daniela Virdis. Un intervento molto interessante, soprattutto per i più giovani, patiti delle serie tv americane. La docente di Lingua inglese ha, infatti, illustrato i risultati di uno studio da lei effettuato sul linguaggio di alcuni telefilm e film di grande successo, più o meno recenti, quali Sex & the City, Nip/Tuck, Desperate Housewives, Simpson, Harry ti presento Sally e Il diario di Bridget Jones ed Ally McBeal . Questi prodotti televisivi e cinematografici «hanno reinventato il genere tradizionale del romance», con cui si intende lo schema per cui un uomo e una donna si incontrano, tra loro è amore a prima vista, poi sorgono degli ostacoli che superano e, infine, si sposano. Quello schema, cioè, costituito dalle «regole sociali da seguire per non essere stigmatizzati». Una reinvenzione che, però, è anche finalizzata a promuovere una cultura consumistica. L’inganno – possiamo ben definirlo tale – sta nel fatto che le eroine femminile proposte sono spesso «donne attive e indipendenti, che danno per scontata l’uguaglianza tra i sessi», ossia rispondono alle «idee femministe classiche», ma dimostrano, con le loro storie, che gli obiettivi che perseguono sul lavoro e nella vita privata non possono essere raggiunti tutti e, pertanto, devono sempre rinunciare a qualcosa. La prof.ssa Virdis ha citato in proposito Ally McBeal:  giovane avvocato di successo che ha, tuttavia, una vita sentimentale disastrosa e che, a neppure 30 anni, è ossessionata dalla maternità e dalla convinzione di essere in ritardo per diventare madre. Dunque, dietro queste rappresentazioni femminili, si nascondono «teorie antifemministe», un «nuovo tradizionalismo» perché «si propone una donna che acquisisce il potere ma vi rinuncia per la famiglia». Si tratta, cioè, ha spiegato ancora la docente, di testi post-femministi che costituiscono una reazione al femminismo e ai suoi valori. Un fenomeno definito backlash (reazione violenta), che ha iniziato a manifestarsi negli anni ’20 del Novecento, ossia nel momento in cui le donne facevano le prime conquiste politiche, ma che è esploso negli ani ’80-’90, durante l’era Reagan, con il «tentativo di “sovvertire” le conquiste del femminismo» (ne sono un esempio la protagonista di Harry ti presento Sally e Bridget Jones). Verità sotto gli occhi di tutti, ma che ai più, anche a chi segue abitualmente le serie tv citate, sfugge. Perché – ha spiegato la prof.ssa Virdis – l’intento è mascherato grazie ad un sapiente uso dell’ironia: queste donne «sembrano femministe perché prendono in giro gli stereotipi femminili, ma sono in realtà donne tradizionali».

La chiusura, come l’apertura, è stata affidata alla brillante prof.ssa Mureddu e, viste le premesse, le sue non potevano che essere parole di sconforto: «Siamo sempre lì. Sulla breccia, a cercare una giustificazione al nostro essere.» Ma che lo sconforto non ci faccia venir meno la voglia di lottare, perché allora sì che la voce addolorata perderebbe per sempre la speranza di trovare consolazione.

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