LA RICORRENZA DI DISTURBI MENTALI E UROLOGICI

di Ernesto Bodini (giornalista scientifico)

 

 


Sta per concludersi il ciclo di conferenze sul tema della prevenzione che si tengono ogni lunedì nell’aula magna universitaria del Centro di Biotecnologie Molecolari di Torino. Al penultimo appuntamento è intervenuto il prof. Filippo Bogetto (nella foto), già direttore del Dipartimento di Salute Mentale interaziendale della Città della Salute e della Scienza di Torino (ospedale Molinette), che ha trattato I volti della depressione e dell’ansia. Due aspetti psico-sociali ancorché patologici (anche se l’ansia, va precisato, è più un sintomo) molto ricorrenti in buona parte della popolazione, tanto che i mass media non mancano di aggiornare in merito. In Italia sono circa 4 milioni le persone che soffrono di depressione, soprattutto le donne nella misura di 2 a 1, peraltro in incremento. Questa patologia è una delle prime indicazioni cui si fa ricorso al proprio medico di famiglia che, pur non essendo uno specialista, è in grado di gestire in “prima battuta” le forme più lievi… anche taluni medici di base non si rendono sempre disponibili per il “poco tempo” a disposizione. In Europa il 7% della popolazione soffre di depressione maggiore e il 14% di disturbi d’ansia, per non parlare poi dei disturbi psicotici, di personalità, dipendenza da alcol, etc. «Sono problemi di notevole impatto sociale – ha precisato il relatore – e sulle cause si deve risalire all’aspetto fisiologico e al tono dell’umore, quale correlato all’attività mentale sia diurna che notturna. In effetti il sonno ha un correlato molto preciso, ma qualunque siano le nostre azioni le stesse possono dare adito a determinate emozioni, compresa l’ansia. Vi è comunque una base eredo-costituzionale, e si tratta al tempo stesso di oscillazioni fisiologiche rispetto al vissuto degli eventi: regimi cronobiologici, somatici, etc.». Ciò che sottende il tono dell’umore fisiologicamente variabile sono ad esempio un lutto, una perdita, o una delusione e ciò in conseguenza di correlati biologici assai precisi in quanto la mente e il cervello sono nella stessa struttura. Ma cosa sono i mediatori cerebrali? «Sono sostanze – ha spiegato il clinico – che trasportano lo stimolo da un neurone all’altro. Riguardo i problemi dell’umore e dell’ansietà i mediatori più importanti sono la seretonina, la dopamina e la noradrenalina; tutte insieme contribuiscono alle nostre attività mentali psicosomatiche che fanno capo all’umore, alle funzioni cognitive, all’emotività, all’appetito, alla sessualità, al sonno, all’aggressività, all’energia e alla motivazione». Il tono dell’umore ha delle varianti fisiologiche e patologiche. Nel primo caso come conseguenza vi è la tristezza e la felicità, e ciò quando sono adeguate agli eventi, non sono associate a sintomi di maggiore entità, e quando sono vissute dal soggetto non compromettono il suo funzionamento nella vita di tutti i giorni. Quelle patologiche sono inadeguate a ciò che succede, contrarie agli eventi che dovrebbero caratterizzare, oltre ad avere una notevole intensità e una “frattura” del continuum dell’individuo… senza un apparente motivo. Ma quali i disturbi dell’umore? «Il fondamento di questi – ha spiegato il cattedratico – è rappresentato dall’episodio depressivo maggiore con la compromissione della vita del soggetto. I sintomi in questi casi sono l’umore depresso, l’incapacità di trovare piacere, le modificazioni dell’appetito e del peso corporeo, i disturbi del sonno (insonnia), il risveglio precoce al mattino; ma può anche verificarsi l’ipersonnia (sonnolenza prolungata), disturbi psicomotori come movimenti rallentati o, all’opposto, irrequietezza e iperattività inconcludente… Sul piano cognitivo si possono manifestare idee di autovalutazione (in negativo), sensi di colpa. Le forme più gravi, ossia quelle con disturbi psicotici, sfociano in veri e propri deliri, ma ciò non ha a che vedere con il razionale senso di autocritica». Questa “frattura” secondo il clinico può durare da alcuni mesi ad uno o due anni, e la guarigione (dopo mesi di sofferenza) è per lo più spontanea, mentre pochi casi (5-6%) cronicizzano. Con l’avanzare dell’età aumenta la gravità degli episodi, e le ricadute nell’arco della vita sono dell’80%; le complicanze sono notevoli come il suicidio, evento questo, che aumenta con l’età in prevalenza negli uomini, soprattutto se restano soli… “Vi sono poi disturbi dell’umore unipolare e bipolare – ha aggiunto il relatore –. Nel primo caso si manifestano sempre con sintomatologie depressive dal tono distimico, ossia per gli effetti di una delusione o di una perdita; e ciò in conseguenza di correlati biologici assai precisi. I disturbi depressivi unipolari (depressione maggiore, distimia) sono disturbi frequenti con una elevata tendenza alla cronicizzazione (pari al 10-25% dei casi) e gravi valenze disabilitanti in termini di compromissione del funzionamento globale e psicosociale. Nel secondo caso i sintomi che caratterizzano il disturbo bipolare stanno ad indicare una grave forma di disturbo dell’umore, in cui la persona interessata vive alterazioni del tono dell’umore con polarità estreme: verso “l’alto” e verso il “basso”. I pazienti adolescenti sono per certi versi più “impegnativi” e il loro trattamento richiede maggior cautela». Nella depressione dell’anziano è importante considerare la patogenesi vascolare, che in taluni casi può causare la depressione stessa e, al contrario, la depressione può essere rischio di malattie cardiovascolari, oltre che di demenze. «Inoltre, va anche precisato – ha concluso Bogetto – che tutte queste patologie sono influenzate da eventi ambientali, soprattutto in presenza di elementi tossici. Anche per questo la ricerca è sempre più orientata a produrre nuove terapie, più mirate per i casi che non rispondono ai protocolli standard di trattamento».

 

 


I problemi relativi ai pazienti, maschi in particolare, sono stati trattati dal prof. Carlo Ceruti (nella foto), chirurgo specializzato in Urologia e laparoscopia all’ospedale Molinette di Torino, il cui tema specifico ha riguardato Quale vita dopo il tumore alla prostata? Un quesito che interessa molti uomini, soprattutto dopo i 50 anni che solitamente vanno incontro all’aumento “fisiologico” delle dimensioni della ghiandola prostatica e, in questi casi, si parla di ipertrofia prostatica benigna (IPB) o di adenoma prostatico, e di prostatite in caso di infezioni della stessa. «Il tumore della prostata – ha informato il relatore – costituisce il 20% di tutti i tumori dell’uomo over 50, ma non è una patologia di cui si muore più frequentemente, grazie alla disponibilità di una diagnosi precoce e delle terapie mediche e/o chirurgiche. La causa di questo tumore non è nota ma è certa una predisposizione genetica e famigliare, e se non viene curato o rimosso lo stesso progredisce sino ad invadere i tessuti circostanti e la formazione di metastasi ai linfonodi e alle ossa». Ma qual è la qualità di vita dei pazienti che hanno contratto questa patologia e in seguito operati? «In questi soggetti che sono stati curati – ha spiegato – la qualità di vita deriva dai trattamenti terapeutici e dai relativi effetti collaterali, ma anche dal controllo oncologico della malattia stessa (follow-up), e dagli esiti funzionali in totale o parziale ripresa. Curare il tumore prostatico significa asportare chirurgicamente la ghiandola (o bruciare la stessa con la radioterapia) comprese le vescicole seminali, tanto da “indebolire” la zona pelvica. L’intervento può essere tradizionale (“a cielo aperto”) o in laparoscopia o robotica». I problemi conseguenti possono riguardare la minzione con eventuale difficoltà nell’espellere l’urina, e anche di carattere sessuale, come pure di carattere anatomico ossia alla posizione della ghiandola. Ma dal punto di vista terapeutico quali sono i vantaggi e gli svantaggi della chirurgia e della radioterapia? «La terapia chirurgica – ha precisato il clinico – comporta una maggior sopravvivenza, riduzione dei sintomi locali, possibilità di preservare i nervi dell’erezione e di poter eseguire una radioterapia in seconda battuta; tra gli svantaggi sono da considerare il rischio di incontinenza, l’impotenza, l’invasività chirurgica e il connesso rischio operatorio. Per quanto riguarda la radioterapia i vantaggi sono la sopravvivenza a medio termine, il trattamento indolore, la non ospedalizzazione e il non rischio di incontinenza; tra gli svantaggi si possono avere meno garanzie nel tempo, possibili cistiti emorragiche e proctiti; inoltre non si risolve l’ostruzione e permane il rischio per il secondo trattamento. Ma va anche detto che dal punto di vista chirurgico l’approccio mininvasivo (laparoscopia-robotica) comporta incisioni minori, migliore visibilità e precisione del campo operatorio, una degenza più breve, minori perdite ematiche e migliori risultati funzionali come la ripresa della continenza e dell’attività sessuale».

 


Relativamente ai risultati oncologici, se adeguatamente trattato, il tumore prostatico localizzato ha il 70% di probabilità di guarigione, ma dopo l’intervento è però necessario sottoporsi regolarmente al controllo del PSA, che è l’antigene prostatico specifico, ossia una sostanza enzimatica nel sangue prodotta dalla ghiandola omonima, da anni utilizzata come “marcatore tumorale” del carcinoma della prostata. Ma l’aumento dei valori del PSA totale non è sempre indicatore della presenza di un tumore, tuttavia il riscontro di un suo valore patologico è sinonimo di “malattia della ghiandola” implicando quindi ulteriori accertamenti: variazioni dei valori del PSA nel sangue possono essere determinati, oltre che da un tumore della prostata, anche da infiammazioni prostatiche, traumi, ingrossamento prostatico benigno, manovre strumentali, eiaculazione, attività fisica e sportiva intensa, alimentazione scorretta e abuso di alcol. «Per un rapido recupero della continenza dopo l’asportazione della prostata – ha concluso Ceruti – lo si ha se l’intervento è effettuato in laparoscopia, e comunque va detto che i tassi di incontinenza definitiva dopo chirurgia robotica sono inferiori al 50%; come pure è soddisfacente il recupero della potenza sessuale soprattutto se l’intervento è effettuato in chirurgia “nerve-sparing”, tecnica che mira ad asportare la prostata risparmiando due fasci di nervi che scorrono ai lati della ghiandola e sono diretti al pene, in quanto responsabili dell’erezione. A questo intervento sono candidabili solo i pazienti con buone probabilità di avere un recupero postoperatorio dell’erezione».
Foto di Giovanni Bresciani

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