La dignità umana riflessa nello specchio di Yann Arthus-Bertrand

human

di Ernesto Bodini
(giornalista scientifico)

Nel corso della nostra esistenza pronunciamo una miriade di vocaboli, molti dei quali non ne conosciamo il reale significato, ma soprattutto la nostra interpretazione, anche se corrispondente, non è seguita dalla messa in pratica… Fra questi mi sovviene spesso alla mente la parola Dignità, che chiunque avrà pronunciato qualche volta. Ma ci siamo mai chiesti cosa significa realmente questo termine? Si sono date diverse interpretazioni sia dal punto di vista etimologico che pratico e, a riguardo, ricordo di aver letto da qualche parte che «la dignità è la virtù che valorizza la persona: si può essere ricchi, belli, famosi, intelligenti e non avere per nulla dignità». Ed ancora. «La persona con dignità sa distinguere il perdono dalla tolleranza: sa perdonare chi ha commesso un torto inaccettabile…, ovvero quando si perdona qualcuno, non è necessario tollerare ciò che ha fatto in quanto lo si può perdonare anche rifiutando di tollerare le sue azioni». E se si vuole sviluppare questi concetti va detto che uno dei grandi errori delle religioni è che ci si possano acquistare meriti davanti a Dio, e che quindi si possa diventare degni di salvezza (un posto in Paradiso). Ma la mia curiosità va ancora oltre perché mi chiedo: si possono soddisfare forse i requisiti umani, ma quelli di Dio? Spesso l’uomo, specie se ha potere, non è degno, ed ancor meno se tale potere lo esercita nei confronti di un suo simile semplicemente perché lo ritiene a lui inferiore.

Yann Arthus-BertrandNon pago di queste considerazioni, che mi porterebbero, unitamente ai lettori, a chiamare in causa trattati di filosofia ed altro ancora, ho visto recentemente alcuni spezzoni del film-documentario “Human” del famoso fotografo e regista francese Yann Arthus-Bertrand (nella foto), un artista dall’animo nobile e sensibile per i drammi umani che ha voluto dare voce a chi non ne ha attraverso 2.020 interviste in tutto il pianeta, in oltre due anni di riprese in 60 diversi Paesi del mondo e in 63 lingue diverse, cui è seguito il film oggi visibile anche sulla piattaforma di Youtube. Testimonianze che ci toccano tutti da vicino, perché tutti siamo “protagonisti” del bene e… del male esistenziale. Un vero e proprio dittico di storie ed immagini del mondo raccontate da ciascuno nella propria lingua madre, le cui espressioni del volto spesso lasciano poco spazio alla interpretazione emotiva e spesso di sofferenza. Interventi brevi ma decisamente intuitivi, senza aver il tempo di capire la provenienza geografica dell’intervistato/a. Testimonianze colme d’amore, di felicità ma anche di odio e violenza che ne hanno condizionato sicuramente parte della loro esistenza. Molte di queste appaiono addirittura struggenti e non certo prive di sincerità, senza trascurare in taluni casi la loro fede religiosa dove il rancore è messo al bando o, quanto meno, è soffocato da quell’intento razionale che si chiama perdono.

humanL’autore ci rammenta che oggi viviamo in un mondo in cui la televisione e internet ampliano i nostri orizzonti tanto da non poter negare l’esistenza dei nostri simili, e che le nostre differenze sono visibili a tutti; ma ciò nonostante questa ricchezza e conoscenza non ci rende più tolleranti. Il fotografo-regista porta l’esempio dell’America, paese fondato sul mito dell’affermazione individuale e la scala sociale è “difettosa”: i più colpiti sono gli afroamericani e le comunità ispaniche le cui prospettive non cambiano mai: un uomo di colore senza diploma ha il 50% di probabilità di finire in prigione durante la sua vita. «Negli ultimi 40 anni – spiega l’autore del documentario – il numero dei detenuti è incrementato del 700% e gli USA sono l’unica nazione occidentale che per i crimini più gravi prevede la pena capitale in oltre la metà degli States, e il futuro di queste persone è rappresentato da una cella o dal braccio della morte; e sempre in questo lasso di tempo 148 individui condannati a morte sono stati giudicati innocenti e rilasciati, in alcuni casi, dopo aver passato decine di anni in carcere per crimini che non avevano commesso». Questa, come altre realtà, evidenzia che sono sempre i bisognosi e i più indifesi a soccombere subendo ingiustizie d’ogni sorta, trovandosi all’ultimo gradino della scala sociale e per questo confinati nell’oblio. Altra vergognosa piaga del pianeta umano è il sistema tangenti che ammonta a 12 miliardi di dollari, cifra astronomica che facciamo fatica a comprendere come molte persone si prestino (e subiscano) al flagello della corruzione. Le molteplici sequenze del lungometraggio riportano ulteriori testimonianze degli intervistati in primo piano e a sfondo neutro, dalle cui labbra si possono leggere la disperazione e nello stesso tempo il contegno consapevoli di subire una lotta impari. Un’altra ingiustizia, che personalmente mi permetto di rilevare, è data dal concetto di “apolide” che significa che nessuno Stato riconosce come proprio cittadino negandogli quindi una serie di diritti come quello del voto. Secondo le stime dell’UNHCR (l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) gli apolidi nel mondo sarebbero circa 10 milioni. E risale al 1954 la Convenzione dell’Onu sullo status degli apolidi per stabilire i diritti che uno Stato deve garantire. «Nel mondo occidentale – sottolinea Arthus-Bertrand – ci siamo dimenticati cosa significhi non avere alcun diritto, tuttavia in un terzo dei paesi del mondo hanno regimi repressivi e autoritari, ma non sono mancati individui che hanno avuto il coraggio di lottare contro l’ingiustizia, rifiutando compromessi   pronti a pagarne le conseguenze». Lui li definisce “eroi” ordinari che ci fanno riflettere su una domanda fondamentale: fin dove siamo disposti a spingerci per affermare la nostra identità, per difendere la nostra libertà, i nostri ideali o i nostri valori? Egli sostiene, ed è da condividere, che questi uomini e queste donne ci hanno insegnato più di tutto e fino a che punto possiamo sentirci vicini a un altro essere umano, sia che ci troviamo a Parigi o a una discarica in Messico e, nonostante questa enorme differenza che si ci separa, riusciamo sempre a ritrovare una parte di noi nelle loro storie e nelle loro parole… Vorrei concludere richiamando il concetto “rispetto per la vita” di Albert Schweitzer (1875-1965), al quale noi esseri umani dobbiamo giungere in quanto racchiude tutto ciò che è compreso nei concetti di amore, dedizione, compassione, gioia. Dobbiamo liberarci di uno stile di vita privo di riflessione. Va da sé, come sosteneva il poeta e saggista britannico Richard Aldington (1892-1962), che la civiltà avrà veramente inizio quando il potere dell’amore sostituirà l’amore del potere.

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