LA DEMONIZZAZIONE DELLE PAROLE

Di Marcella Onnis

In una delle ultime puntate di Che tempo che fa, Fabio Fazio ha ospitato Gino Strada: un’’intervista molto interessante nel corso della quale il fondatore di Emergency ha illustrato gli ultimi obiettivi raggiunti dall’’associazione, le difficoltà che quotidianamente i suoi membri devono fronteggiare, in particolare in Afghanistan, le somme che sarebbero necessarie per realizzare i prossimi progetti (l’’equivalente di 8 ore di guerra in Iraq) e così via.

Quando ci si trova davanti a persone come Strada – – serie, concrete, affidabili, umane, generose – – si resta inevitabilmente affascinati, però questo, talvolta, porta ad accettare acriticamente anche alcune estremizzate posizioni da esse assunte.

Mi riferisco, in particolare, a due momenti dell’’intervista in cui si è parlato di aziende ospedaliere e di immigrati clandestini.

Riguardo al primo argomento, Strada sostiene che è una bestemmia parlare di azienda riferendosi ad un ospedale in quanto l’’idea di impresa è inconciliabile con il dovere di offrire a tutti cure gratuite. Ora, non c’’è dubbio che tale diritto sia sacrosanto (seppure ben lungi dall’’essere garantito), ma perché demonizzare il termine “azienda”? Di per sé, introdurre una logica imprenditoriale in una struttura pubblica, anche se destinata alla tutela della salute, non è un male: non lo è se questo serve a portare quell’’ente ad una gestione economica sana, che assicuri un bilancio almeno in pareggio, che elimini sprechi ed inefficienze destinando le conseguenti economie all’’abbattimento (o perlomeno alla riduzione) delle tariffe e alla realizzazione di investimenti –- in termini di risorse sia umane che tecnologiche –- in grado di elevare la qualità delle prestazioni offerte. Il problema nasce nel momento in cui -– come sta effettivamente accadendo in molti casi – l’’idea di azienda viene intesa nel senso più deleterio del termine: riduzione dei costi, anche a discapito della qualità, in vista della massimizzazione dei profitti (solitamente da spartire tra la sola classe dirigente); scrematura dei clienti …… Questa, però, è solo un’’opzione, non l’’unica direzione possibile.

Quanto al secondo punto, Gino Strada sostiene che “clandestino” sia un termine “molto poco intelligente” perché le leggi la cui violazione determina la situazione di clandestinità cambiano repentinamente. Seguendo questo ragionamento, dovremmo allora arrivare a sostenere che nessuno dovrebbe andare in prigione perché ciò che oggi è reato, domani potrebbe non esserlo più; che non si deve pagare l’’Irpef perché detrazioni, deduzioni, aliquote e scaglioni variano di anno in anno e così via. La clandestinità è un dato di fatto: clandestino è ciò che viene fatto segretamente perché vietato da una determinata norma in vigore in un dato momento. Non dimentichiamo che il termine deriva dai vocaboli latini clam, che significa “di nascosto”, e dies, che significa “giorno”, indicando dunque originariamente ciò che si nasconde di giorno. Altro discorso è, poi, come comportarsi davanti a questa violazione, perché un conto è avere a che fare con un bene, un conto è dover stabilire come comportarsi con una persona. È qui che devono entrare in gioco i discorsi umanitari, è in questo momento che il principio di legalità va contemperato con il rispetto dell’’individuo. Un Paese civile deve assicurare il benessere di tutti coloro che risiedono sul suo territorio, che siano o meno cittadini, e per farlo deve poter controllare il flusso di persone che vi entrano. Se non lo facesse, infatti, come potrebbe garantire che i nuovi arrivati trovino idonea accoglienza? Il problema non sono i controlli in sé, bensì l’’obiettivo cui essi sono finalizzati: programmare tempi e modi per l’’integrazione oppure espellere, più o meno indiscriminatamente, tutti gli immigrati.

Insomma, volendo tirar le somme del discorso, raramente il problema sono le parole in sé, più spesso è l’’interpretazione che se ne dà.

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