Il ragionevole dubbio spiegato da Gianrico Carofiglio

Tanti ne parlano, ma quanti sanno davvero come operi – o dovrebbe operare – il “ragionevole dubbio”? Utile, comunque, per tutti la “lezione” tenuta da Gianrico Carofiglio alla 19° edizione del festival della letteratura di Mantova.
di Marcella Onnis
Festivaletteratura 2015 – Mantova – Sabato 12 settembre 2015
Tra le tipologie di evento del Festival della letteratura di Mantova, le “lavagne” meritano sicuramente una menzione speciale, non solo perché a ingresso libero e gratuito: con il supporto di una lavagna vera – di quelle che la LIM (la lavagna interattiva multimediale) vuole mandare in pensione -, esperti di una determinata materia spiegano, con parole comprensibili anche ai non addetti ai lavori, concetti tecnici noti ma poco intellegibili. Sono incontri così avvincenti e piacevoli che si riesce a seguirli con attenzione anche una volta che il sedere – a contatto con gli scalini della chiesa di S. Andrea in piazza Mantegna – si è ormai completamente appiattito e ha perso sensibilità. Tante le lavagne interessanti di questa edizione 2015 e incastrare tutto il meritevole nella propria agenda è un’impresa, per cui ne scelgo solo una, ma con estrema convinzione: quella sul ragionevole dubbio (il diritto è entrato proprio quest’anno tra i temi trattati nelle lavagne), con “relatore” Gianrico Carofiglio, le cui abilità comunicative avevo già potuto apprezzare durante l’incontro del giorno precedente su metafore e democrazia.
La lezione di Carofiglio parte dal «carattere sfuggente del concetto di verità», che emerge già esaminando la locuzione “la verità” o “le verità”. Questa, spiega, ha ventuno possibili anagrammi, tra i quali “rivelata/e”, “relativa/e” e “evitarla/e”. Vi state già stupendo? Io sì!
«Nelle pieghe della composizione letterale di questo concetto si svela la sua straordinaria complessità e scivolosità», eppure «la verità è centrale nel processo penale». E questo inizia già a spiegare un po’ di cose…
Carofiglio passa a esaminare questi anagrammi rivelatori, partendo appunto da “rivelata”, aggettivo che «allude a un concetto filosofico, a un processo di intuizione, non razionale». “Relativa”, invece, ci ricorda che «esiste una questione di verità plurali, di punti di vista che concorrono a creare una verità condivisa o condivisibile». (Tenete a mente questo concetto, come il “maestro” suggerisce a noi di fare.) Ma che attendibilità hanno le singole verità? Carofiglio ricorda che Elizabeth Loftus, massima studiosa della psicologia delle testimonianze, sottolinea «quanto sia delicato il materiale di cui è fatta la testimonianza, che per molti versi è un fatto creativo». E con una serie di esempi, abbastanza inquietanti, ci dimostra come i ricordi – o i “ricordi” – possano essere arricchiti con particolari inventati, anche in buona fede e quindi inconsapevolmente. Dunque, «la ricostruzione dei fatti del passato – che in buona parte è fatta con i racconti dei protagonisti – è roba delicata, è molto inaffidabile, da maneggiare con estrema cautela. Il materiale che si maneggia nei processi è questo. È bene saperlo. Verità rivelate nei processi non ce ne sono: vi si produce una conoscenza di tipo storico perché riguarda fatti del passato. E la verità delle discipline di tipo storico è molto diversa da quella delle discipline di tipo formale (quali la logica, la matematica, la fisica) in cui, data una certa premessa, la verità è unica, non c’è alternativa. Mentre non c’è nessuna verità storica che possa escluderne un’alternativa». Ci avevate mai pensato? Io, francamente, no.
«L’altamente improbabile non si prende in considerazione. La verità storica, invece, è plausibile» spiega, contestando di conseguenza la validità del concetto “la verità dei fatti”, perché «la verità storica è una ricostruzione, ma non una certezza. I racconti sono materiale delicato; i documenti sono da interpretare; le tracce ancora di più. La verità storica è probabile». (Alzi la mano chi si sta chiedendo quante condanne possano definirsi con certezza assoluta atti dovuti.)
Come si esce da questo apparente vicolo cieco (che, comunque, anche fornito di apertura resta oscuro e poco rassicurante)? «L’unica possibilità che abbiamo per rendere tollerabile che si possano condannare persone sulla base di questa verità è che il grado di probabilità sia così alto che l’alternativa sia relegata a uno spazio limitato». Infatti, «il dubbio rispetto a una ricostruzione dei fatti del passato c’è sempre. Se il dubbio è ragionevole, allora si deve assolvere. Se il dubbio non è ragionevole, si condanna». A parole pare abbastanza facile.
Al ragionevole dubbio si lega anche la condizione personale di Carofiglio, nel senso che a chi gli chiede com’è che da magistrato è diventato scrittore risponde che «in comune tra il lavoro di magistrato e quello di scrittore ci sono le storie. Nelle sentenze – e prima ancora nelle arringhe e nelle ricostruzioni dei testimoni – i fatti del passato sono calati in una struttura narrativa perché non se ne può fare a meno. Ma per rendere la storia convincente, il Pubblico ministero e il giudice devono immaginare una storia alternativa» rispetto alla ricostruzione fatta dai testimoni e a quella che si può fare con gli indizi a disposizione. «Il PM, se è bravo e consapevole, dovrebbe, nella sua requisitoria, immaginare una storia alternativa e vedere se è plausibile, quindi capace di mettere in moto il dubbio ragionevole. Se esiste un grado di plausibilità delle storie alternative, il PM deve chiedere l’assoluzione».
Ma se guardiamo in faccia la realtà, non sempre giudici e pubblici ministeri si dimostrano bravi e consapevoli o, perlomeno, ligi a questi civilissimi principi: talvolta, infatti, l’obiettivo altissimo di individuare IL colpevole viene palesemente soppiantato dall’obiettivo, più a portata di mano, di trovare UN colpevole. E la realtà non è solo quella raccontata dai media, fatta magari di clamorosi errori giudiziari, ma anche quella raccontata – lontano dai riflettori, magari a casa o tra amici – da anonimi avvocati penalisti incaricati di difendere non feroci assassini ma poveri cristi.
Intanto, però, Carofiglio prosegue la sua lezione: «Dubbio ragionevole significa argomentabile, che si concretizza in una storia alternativa plausibile. Se si concedesse spazio al dubbio irragionevole, non si potrebbe mai condannare. Si condanna se il dubbio è limitato a una percentuale statisticamente così ridotta da poterlo considerare improbabile. Tutto questo discorso molto tecnico porta al buon senso. Einstein diceva che il buon senso è il genio quando si mette gli abiti da lavoro».
Riassumendo: «Il processo e l’indagine sono discipline storiche, verità probabili, approssimative nel senso nobile del termine, nel senso che si avvicinano a come sono andati i fatti. Le verità formali usano lo strumento della dimostrazione, partendo da premesse e arrivando a conclusioni obbligate. Le verità storiche partono da premesse condivise (indizi), passando per un ragionamento (argomentazione), e il dubbio irragionevole è quell’alternativa così statisticamente improbabile da potersi escludere. Mentre se c’è un dubbio ragionevole, in un qualunque Paese civile si assolve».
Per concludere, Carofiglio chiama in causa Norberto Bobbio (il cui solo nome già fa caricare l’applauso), secondo il quale «l’argomentazione rifiuta le antitesi radicali, le verità rivelate degli invasati e lo scetticismo di chi sostiene che non possa ricostruirsi una verità. Essa ricerca le verità e le confronta». E Bobbio, ricorda, sosteneva anche che «quando gli uomini cessano di credere alle buone ragioni, è allora che comincia la violenza».
Quanti fra voi sono tuttora pronti a scagliare la prima pietra?