Il diritto all’informazione secondo la Corte di Cassazione

Non poteva capitare in un momento più opportuno la sentenza della Corte di Cassazione – Sezione Terza Civile, n. 16236 del 9 luglio 2010, con la quale gli ermellini – chiamati a pronunciarsi sui limiti del c.d. giornalismo d’inchiesta – ci ricordano la rilevanza del fondamentale e insopprimibile diritto all’informazione.

Il caso. Nell’ormai lontano 1998, alcuni cronisti del quotidiano “Il tempo” versarono del thè in contenitori sterili e lo fecero analizzare presso diversi laboratori, spacciandolo per urina; alcuni referti attestarono con assoluta certezza che si trattava di urina: l’accaduto fu portato all’attenzione dell’opinione pubblica, come esempio di malasanità commesso ai danni dei cittadini.

Il giudizio. Immediatamente, il gestore di uno dei laboratori interessati convenne in giudizio casa editrice, direttore del quotidiano, cronisti e articolisti, affinché venisse accertata la natura diffamatoria degli articoli – sia per la falsità delle notizie, sia per i toni utilizzati – e così disposta la condanna dei responsabili al risarcimento dei danni: dopo una parziale vittoria in primo grado, seguita dall’integrale riforma della sentenza in appello, la parola – l’ultima – è passata alla Corte di Cassazione.

Il giornalismo d’inchiesta. I giudici del Palazzaccio prendono le mosse dalla peculiarità del c.d. giornalismo di inchiesta, “espressione più alta e nobile dell’attività di informazione” nella misura in cui consente che l’acquisizione delle notizie avvenga autonomamente, direttamente e attivamente da parte del professionista e non attraverso la ricezione passiva di informazioni mediate da “fonti” esterne: non a caso – ricordano gli ermellini – il rilievo del giornalismo di inchiesta è stato, tra l’altro, riconosciuto dalla Corte di Strasburgo  e dalla Carta dei doveri del giornalista (firmata a Roma 18 luglio 1993 dalla Fnsi e dall’Ordine nazionale dei giornalisti) che, tra i principi ispiratori, prevede testualmente che “il giornalista deve rispettare, coltivare e difendere il diritto all’informazione di tutti i cittadini; per questo ricerca e diffonde ogni notizia o informazione che ritenga di pubblico interesse, nel rispetto della verità e con la maggiore accuratezza possibile. Il giornalista ricerca e diffonde le notizie di pubblico interesse nonostante gli ostacoli che possono essere frapposti al suo lavoro e compie ogni sforzo per garantire al cittadino la conoscenza ed il controllo degli atti pubblici. La responsabilità del giornalista verso i cittadini prevale sempre nei confronti di qualsiasi altra. Il giornalista non può mai subordinarla ad interessi di altri e particolarmente a quelli dell’editore, del governo o di altri organismi dello Stato“.

Ecco perché detta modalità di fare informazione non viola l’onore e il prestigio di soggetti giuridici, con relativo discredito sociale, qualora ricorra l’oggettivo interesse a rendere consapevole l’opinione pubblica di fatti ed avvenimenti socialmente rilevanti (quali certamente quelli che coinvolgono il bene primario della salute e dei mezzi a disposizione per presidiarla), l’uso di un linguaggio non offensivo (e tale era quello utilizzato dai giornalisti che hanno condivisibilmente definito “scandalosi” e “sconcertanti” i risultati dell’inchiesta) ed il rispetto dei canoni di correttezza professionale (i giornalisti, infatti, si sono limitati a far analizzare dei campioni di thè, senza artifizi, per poi denunciare il deprecabile risultato delle analisi svolte, attestanti trattarsi di un liquido organico a causa di un errore del laboratorio).
Il diritto all’informazione. Viene così tracciato un complessivo quadro disciplinare che vede la prevalenza del fondamentale e insopprimibile diritto all’informazione sui diritti personali della reputazione e della riservatezza: ciò innanzitutto perché l’art. 1, comma 2 della Costituzione, nell’affermare che “la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”, presuppone quale imprescindibile condizione per un pieno, legittimo e corretto esercizio di detta sovranità che la stessa si realizzi mediante tutti gli strumenti democratici a tal fine predisposti dall’ordinamento, tra cui un posto e una funzione preminenti spettano all’attività di informazione; “vale a dire che intanto il popolo può ritenersi costituzionalmente ‘sovrano’ (nel senso rigorosamente tecnico-giuridico di tale termine) in quanto venga, al fine di un compiuto e incondizionato formarsi dell’opinione pubblica, senza limitazioni e restrizioni di alcun genere, pienamente informato di tutti i fatti, eventi e accadimenti valutabili come di interesse pubblico”.

Insomma, una sentenza che non ha bisogno di essere commentata ma che, di questi tempi, andrebbe letta (e riletta) con molta attenzione.

Silvia Onnis

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