Il carcere con i suoi diritti negati … e ribaditi a Cagliari
Il carcere – ancora oggi bisogna ricordarlo – è patria di diritti negati. La risposta giusta, però, potrebbe non essere la sua abolizione: forse basterebbe farne un luogo della democrazia. È una delle proposte “scandalose” avanzate il 10 dicembre 2014 a Cagliari, durante l’incontro “I diritti negati, salute mentale, carceri e ospedali psichiatrici giudiziari”.
Quelli che Franco e Franca Basaglia definirono per la prima volta nel 1975 “crimini di pace”, si riscontrano tanto negli ospedali psichiatrici giudiziari (OPG) quanto nelle carceri, istituti che dovrebbero porre rimedio alle violazioni del diritto e che, invece, paradossalmente, sono tra i luoghi in cui questo più spesso viene violato, persino nella sua massima espressione rappresentata dalla Costituzione italiana. Per tale ragione il carcere ha trovato spazio nell’incontro “I diritti negati, salute mentale, carceri e ospedali psichiatrici giudiziari”, organizzato a Cagliari il 10 dicembre scorso dall’Associazione sarda per l’attuazione della riforma psichiatrica (Asarp), dal Comitato sardo Stop OPG, dalla cooperativa sociale “Il Giardino di Clara” e dalle altre organizzazioni che hanno aderito alla terza edizione del “Mese dei diritti umani”.
IL CARCERE: QUESTIONE CENTRALE PER LA SARDEGNA – L’argomento carcere è stato affrontato dal costituzionalista Daniele Piccione nella sua interessantissima analisi delle istituzioni totali, che vi abbiamo riportato in sintesi nell’articolo “La salute mentale e i suoi diritti negati… ricordati a Cagliari”. Ma ne ha parlato soprattutto – e magistralmente – Franco Corleone, coordinatore nazionale dei garanti territoriali per i diritti dei detenuti. E a questo punto è doveroso precisare un’altra inadempienza della Sardegna: la mancata applicazione della legge sul Garante regionale dei detenuti, già ricordata lo scorso 27 novembre da Roberto Loddo (presidente della cooperativa sociale “Il Giardino di Clara” e della Conferenza regionale volontariato giustizia), durante una puntata del programma televisivo “Dimmi la verità” dell’emittente regionale Videolina dedicata alla chiusura del carcere di Buoncammino.
Sulla situazione dell’Isola, Corleone (nella foto accanto a Gisella Trincas) ha espresso con estrema chiarezza e franchezza il suo punto di vista: «Il carcere deve diventare una questione centrale per la Sardegna» e lo ha affermato con riferimento alla decisione di trasferire in questa regione i detenuti in regime di 41-bis, ma anche di trasferire il carcere da Buoncammino a Uta, luogo che definisce «inaccessibile per volontari e parenti». L’aggettivo appare esagerato (il CTM, l’azienda per il trasporto pubblico locale di Cagliari e hinterland, ad esempio ha già adeguato il suo servizio per consentire di raggiungere la struttura anche con i mezzi pubblici), ma non c’è dubbio che la nuova località sia molto meno agevole da raggiungere rispetto a quella del capoluogo sardo (e tacciamo qui altre perplessità altrettanto gravi da più parti espresse).
CARCERE E DEMOCRAZIA: «UN BINOMIO INQUIETANTE»? – Tali considerazioni sono state espresse a margine di un corposo intervento di portata generale, che da subito si è rivelato stimolante e, potremmo dire, destabilizzante. «Il carcere viene dipinto come luogo invivibile, insopportabile per la coscienza civile,» ha esordito Corleone «ma allora ci dobbiamo domandare perché non ci sono rivolte, proteste», come pure «qual è la risposta civile di chi subisce questi maltrattamenti». Volutamente, il Coordinatore dei garanti ha lasciato in sospeso tali quesiti. Invece, ha ipotizzato la risposta che molte persone darebbero a un’altra domanda: i detenuti hanno diritti? Una risposta che – a suo parere e anche nostro – sarebbe negativa perché non tutti comprendono che «perso il diritto alla libertà, ne permangono altri». Come ha affermato il costituzionalista Daniele Piccione, infatti, quello dei diritti negati «non è il tema dei diritti non garantititi a tutti, è un problema diverso: si tratta di diritti negati a chi ne avrebbe spettanza».
Secondo Corleone, il carcere deve essere valutato in rapporto alla democrazia «per capire se ci debba essere e come debba esserci». Con un certo sarcasmo verso i diffusi pregiudizi, ha sottolineato come quello tra carcere e democrazia sia «un binomio inquietante». Ma dal suo intervento è apparso chiaro che inquietante dovremmo trovare altro: «La democrazia che stiamo vivendo – che qualcuno ha definito “emotiva” – si è dipanata sulla categoria dell’emergenza». Ogni fatto drammatico e di rilevanti dimensioni, cioè, è stato «tradotto in norme emergenziali» che hanno prodotto gravi e lunghe storture le quali, a loro volta, «hanno messo in discussione i principi della democrazia [anzi, la sua stessa esistenza, come ha affermato in seguito, ndr] e della non esclusione sociale». Lasciare che si attenti all’inclusione sociale, però, significa indirettamente danneggiare se stessi perché «se pratichiamo i diritti degli ultimi, possiamo vedere garantiti i diritti di tutti». Invece, se si garantiscono solo quelli dei forti («che poi sono privilegi» ha precisato Corleone), saranno sempre più numerose le fasce della popolazione cui non saranno riconosciuti. Per questo è necessario pretendere che i diritti siano rispettati anche in carcere; per questo, ha spiegato, «stiamo lavorando sul “carcere dei diritti” o, ancora, più provocatoriamente, sul concetto di carcere come luogo della democrazia».
Tale modello nasce da un’importante presa d’atto: «Ci troviamo di fronte al fallimento del carcere nel suo complesso, del carcere della riabilitazione» perché «è diventato un luogo della sola punizione, che toglie ragione al funzionamento della giustizia». Per tale ragione, ha aggiunto Corleone, ripensarlo «è all’ordine del giorno», anche se esiste il grosso limite costituito dalle norme del codice Rocco, che tra le righe definisce non solo vecchie e inadeguate, come fatto dal giudice Maria Cristina Ornano nel suo intervento, ma anche illibertarie. E, in proposito, punta ancora una volta il dito sulla negligenza e l’inadeguatezza dei politici: «Si parla di supplenza della magistratura, ma la politica dov’era?» Inefficaci, a suo parere, sono anche le soluzioni tardivamente proposte (modifica di singole norme, aumento dei termini di prescrizione dei reati…) perché si tratta sempre di risposte emergenziali. In realtà – ha dichiarato, ancora una volta senza peli sulla lingua – «si sa tutto quello che bisogna fare, solo che non si fa». E si sa, ha precisato, dal 1904, quando Filippo Turatti descrisse le carceri come “il cimitero dei vivi”. «Abbiamo riforme da fare» ha continuato «ma non si è fatto nulla e le cose si sono aggravate».
NO AL CARCERE “INFANTILIZZANTE” – Lo stupore maggiore, però, l’hanno forse dettato altre sue affermazioni, in particolare la sua bocciatura della «retorica del lavoro salvifico», che per qualcuno, ha ricordato, è addirittura spunto per proporre il ritorno dei lavori forzati: «Non possiamo pensare che la risocializzazione dei lavoratori sia solo svolgere un lavoro, spesso dequalificante. La cultura ha un ruolo importante. I detenuti hanno bisogno di ripensare il passato e progettare il futuro, ma questo richiede strumenti per rimettere in moto la testa». Strumenti che, però, sono carenti, quando non inesistenti: Corleone ha ricordato, infatti, che nelle carceri spesso non ci sono biblioteche o altri luoghi in cui i detenuti possano dedicarsi alla lettura. Al massimo, possono chiedere libri da leggere in cella (ma anche ottenere questi non sempre è facile), dove però non sempre godono della necessaria concentrazione. E, ancora più duramente, il Coordinatore dei garanti ha affermato che «dobbiamo rifiutare un carcere “infantilizzante” (lo scopino, lo spazzino…)», dove domina la logica dei benefici elargiti a chi “fa il bravo”, che inibisce la riflessione e la protesta per le violazioni dei diritti.
Secondo Corleone, invece, il modello da realizzare è «un carcere in cui si esercitano la responsabilità e l’autonomia». Un carcere, cioè, che garantisca quei diritti oggi violati: alla vita, alla salute, a esprimersi, alla sessualità («di solito si dice all’affettività, ma diciamo le cose come stanno» ha precisato con la sua “salvifica” schiettezza), al voto… «Occorre convincere i detenuti a votare», ha detto, e «anche i vivi», ha risposto qualcuno dal pubblico, seguito da una risata generale di approvazione. Il progetto di fare del carcere un luogo della democrazia, peraltro, ha una dimensione strategica più ampia: «Da queste sperimentazioni può emergere, per contagio, qualcosa di positivo anche nella società» ha spiegato Corleone, aggiungendo che le stesse forme di partecipazione che si vogliono sperimentare in carcere, per decidere come questo deve essere, possono essere attuate nel resto della società.
Cambiare fisionomia a questa istituzione è in ogni caso necessario anche perché – come ha sottolineato Corleone – «i detenuti vivono tutti la loro condizione come vittime e questo non aiuta a ripensare il passato e a progettare il futuro». E che ciò sia vero lo dimostrano le testimonianze degli interessati, a partire da Carmelo Musumeci che – anche nelle lettere inviate al filosofo Giuseppe Ferraro e raccolte nel libro “L’assassino dei sogni” – scrive: «Spesso le persone vengono rinchiuse per essere abbandonate a se stesse. In questo modo il carcere non ti fa capire nulla e trasforma il colpevole in una vittima»; «Il carcere oltre a non funzionare crea un essere vendicativo perché trasforma il colpevole in una vittima»; «Tu mi hai scritto che non si dà al detenuto nelle condizioni in cui è trattato la possibilità di pensare ai danni arrecati. Da colpevole si finisce per diventare vittime. Vittime non innocenti».
TANTE BATTAGLIE …CHE SI POSSONO VINCERE– Inaccettabile è poi che tra queste mura – ha ricordato Corleone – ci siano anche persone che stanno scontando pene illegittime perché le norme che le prevedevano sono state dichiarate illegittime, ma né politici né giudici dell’esecuzione sono ancora intervenuti. «Questo è intollerabile in uno Stato di diritto» ha detto il Coordinatore dei garanti. Oltre a queste battaglie, sono in corso anche quella per l’introduzione del reato di tortura e per l’abolizione dell’ergastolo. E, in proposito, Corleone ha sottolineato come quelli che oggi celebrano Aldo Moro come vittima del terrorismo non ricordano, invece, che fu proprio lui, due anni prima di essere rapito, ad esprimere la condanna più grave nei confronti dell’ergastolo, definendolo peggiore della pena di morte.
Superare in modo adeguato questa situazione di illegalità, comunque, è possibile (e se lo dice una persona concreta, che rifiuta la retorica, dobbiamo crederci): «Nessuno è escluso per sempre e la società è capace di non essere un società dell’esclusione».
Le bellissime foto sono di Stefania Meloni dello studio editoriale Typos – Cooperativa sociale “Il Giardino di Clara”, che ringraziamo per avercene generosamente concesso l’uso.
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