Epatite C in Sardegna: quali strategie per eradicarla?

Marta Sangiorgi

di Marcella Onnis

Il 18 dicembre scorso si è svolto a Cagliari il convegno “HCV Regione Sardegna: clinici, pazienti ed istituzioni a confronto”, moderato dalla giornalista de “Il Sole24ore Sanità” Rosanna Magnano e finalizzato a riflettere sulle strategie da adottare per raggiungere l’obiettivo dell’eradicazione dell’epatite C.

raimondo ibbaPer il dott. Raimondo Ibba, Presidente dell’Ordine dei medici chirurgici e degli odontoiatri della Provincia di Cagliari, la strada da seguire è chiara: considerato che la Regione Sardegna dispone di limitate risorse economiche, occorre non solo «garantire le cure agli attuali e tanti malati sardi», ma anche «evitare che se ne formino altri». Un obiettivo che, a suo parere, non è stato adeguatamente perseguito dal piano nazionale di eradicazione dell’HCV e che richiede di prestare attenzione a tutti i fattori di rischio: trasfusioni, sterilità delle sale, utilizzo delle sostanze da abuso… Senza prevenzione, «i fondi per garantire la salute ai cittadini sardi non basteranno mai», ma affinché la Regione decida di investire nella medicina preventiva, ha affermato ancora Ibba, «è necessario che la politica abbandoni la logica elettorale dei risultati immediati perché la prevenzione produce effetti nel medio-lungo periodo», ossia in 10-15 anni. Concorde Ivan Gardini, Presidente dell’associazione EpaC, per cui la prevenzione dovrebbe riguardate tutte le malattie infettive trasmissibili, in quanto simili all’epatite C. A suo parere, un efficace strumento di prevenzione sarebbe l’introduzione dell’educazione sanitaria nelle scuole medie e superiori, volta a informare i ragazzi su temi di grande rilevanza sociale quali le vaccinazioni, la prevenzione e la donazione degli organi. Sulla stessa linea d’onda il dott. Francesco Luigi Bandiera, Direttore della Medicina interna dell’ospedale “SS. Annunziata” di Sassari, che ha posto l’accento sull’importanza di informare anche sui rischi dell’obesità, e il dott. Nicolò Orrù, Direttore sanitario dell’Azienda ospedaliero-universitaria (AOU) di Sassari, che ha sottolineato come educare significhi far cambiare i comportamenti. Secondo il dott. Marco Campus del reparto Malattie infettive dell’ospedale “SS. Trinità” di Cagliari, inoltre, ci sono dei comportamenti a rischio che è prevedibile siano comunque tenuti, per cui sarebbe opportuno invitare a tenerli adottando almeno degli standard di sicurezza.

relatori convegno su epatite CUn altro punto critico su cui sono intervenuti più relatori è quello dell’emersione del sommerso, ossia di quelle circa 700 mila persone cui si pensa l’infezione non sia stata ancora diagnosticata. Secondo il dott. Emilio Montaldo, Segretario dell’Ordine dei medici della Provincia di Cagliari, spetterà soprattutto ai medici di medicina generale come lui individuare questi pazienti e indirizzarli ai centri autorizzati. Secondo la dott.ssa Raffaela Angela Ferrai, Dirigente medico della Medicina interna dell’ospedale “N.S. della Mercede” di Lanusei, dovrebbero essere proprio questi medici a fare una prima scrematura e a inviare i pazienti a un centro autorizzato con già un’ipotesi diagnostica. D’accordo con queste osservazioni il dott. Roberto Ganga, Direttore della Medicina interna dell’ospedale “G. Brotzu” di Cagliari, il cui centro si è dotato di un portale che consente ai medici di medicina generale di segnalare pazienti infetti o potenzialmente tali agli epatologi. Secondo Gardini e il dott. Umberto Antonio Nevisco, Segretario per la provincia di Cagliari della Federazione italiana medici di medicina generale (FIMMG), inoltre, sarebbe utile organizzare corsi di formazione su questo tema per i medici di medicina generale. Utilità confermata indirettamente dal prof. Luchino Chessa della Medicina interna e malattie del fegato dell’Azienda ospedaliero-universitario di Cagliari, che ha rimarcato come esistano ancora medici, non solo pazienti, convinti che dall’epatite C non si guarisca.

Secondo il dott. Aldo Caddori e il dott. Efisio Chessa, Direttori della Medicina interna rispettivamente degli ospedali “SS. Trinità” di Cagliari e “S. Martino” di Oristano, individuare il sommerso potrebbe essere ancora più semplice se si analizzassero i database delle strutture sanitarie, considerato che il test per verificare l’eventuale presenza di anticorpi anti-HCV è ormai quasi di routine. In ogni caso, per Bandiera e Gardini il sommerso non sarebbe così cospicuo come si crede, in quanto le stime si basano su una coorte vecchia di decenni, ormai sicuramente ridotta. Ciò su cui i relatori sono, invece, concordi è che una buona quota di sommerso possa essere rintracciata in carcere e nei Servizi per le dipendenze (SERD). Secondo il dott. Sergio Babudieri, Direttore delle Malattie infettive dell’AOU di Sassari, è una stima attendibile che su 100 mila detenuti che annualmente passano per le carceri italiane circa il 30% siano positivi al test per gli anticorpi (che è, però, condizione diversa dall’essere viremici, ha precisato). Secondo Babudieri, nel carcere di Bancali dove segue diversi pazienti, con molta probabilità ci sono 120 pazienti viremici da trattare su 520 detenuti. Nella provincia di Oristano, invece, ha raccontato il dott. Efisio Chessa, i detenuti del carcere di Massama sono stati tra i primi a essere curati con i nuovi farmaci perché ci sono state fortissime pressioni dalla direzione carceraria.  Trattare questi pazienti, ha sottolineato, comporta notevoli difficoltà logistiche ed economiche; per esempio, il costo di un trasferimento di un detenuto si aggira sui 4 mila euro, ha fatto presente Gardini, per il quale è quindi necessario elaborare protocolli di cura che prevedano la somministrazione del trattamento ai detenuti direttamente in carcere.
Massimo Estello DianaUn 30% di persone positive è una percentuale attendibile anche per i SERD, secondo il dott. Massimo Estello Diana della Commissione regionale per le dipendenze patologiche (CRDP), che è anche Direttore del SERD di Cagliari. Diana ha spiegato che il cambiamento degli stili di consumo delle sostanze d’abuso sta influendo sulla diffusione dell’epatite C: oltre all’eroina, infatti, si è notevolmente diffusa la cocaina, spesso usata da persone i cui stili di vita favoriscono il contagio. Non solo: la cirrosi, da alcool o da epatite, sta diventando causa di morte più frequente dell’overdose.

Per Gardini, però, prima di pensare ai malati che ancora non sanno di esserlo, occorre assicurarsi che tutti i pazienti cui l’epatite C è già stata diagnosticata siano curati e per far questo è necessario agire a monte, informandoli delle nuove opportunità di cura. Secondo il dott. Bandiera, ad esempio, non è stato adeguatamente pubblicizzato l’allargamento dei criteri di accesso ai nuovi farmaci, mentre il dott. Efisio Chessa e il dott. Giovanni Garrucciu, Dirigente della Patologia medica dell’AOU di Sassari, hanno segnalato che alcuni pazienti non vogliono iniziare il trattamento con i nuovi farmaci perché convinti che dovrebbero sopportare grossi effetti collaterali come con le vecchie terapie a base di interferone. Proprio con l’obiettivo di curare tutti quelli che sanno già di essere malati, EpaC ha proposto alla Regione Lombardia di inviare una lettera a tutte le famiglie in cui siano indicati i centri autorizzati a somministrare i nuovi farmaci. Un’idea che è piaciuta al prof. Luchino Chessa, per il quale la Sardegna potrebbe replicare questo sistema, invitando le persone a curarsi, se la malattia è già stata diagnostica, o a fare il test se non lo hanno ancora fatto (l’esame, peraltro, per le strutture sanitarie comporta un costo contenuto, ha rimarcato il dott. Nevisco). Per Gardini, inoltre, le regioni potrebbero, in generale, fare di più e meglio, come incrementare il numero di centri autorizzati e tracciare «percorsi di presa in carico nei SERD e nelle carceri», luoghi in cui non solo è presente una notevole percentuale di persone infette, ma è anche elevato il rischio di contagio. Inoltre, ha rilevato, nessuna ha individuato obiettivi e misuratori chiari per l’eradicazione dell’HCV.

Il dott. Montaldo e il dott. Garrucciu hanno, invece, evidenziato che l’eradicazione richiede di sensibilizzare i pazienti sia sulla necessità di eseguire gli esami per individuare l’eventuale infezione sia sui comportamenti da tenere per evitare contagi, ricadute e reinfezioni (frequenti, in particolare, nei pazienti del SERD, hanno specificato il dott. Diana e il prof. Chessa).  Ancora, il dott. Bandiera e il dott. Caddori hanno sottolineato che occorre assicurarsi che i pazienti guariti comprendano che, a causa della malattia, hanno sviluppato altre patologie e/o riportato danni al fegato (quali cirrosi), pertanto, anche una volta negativizzati, devono sottoporsi a controlli periodici, in particolare per individuare l’eventuale insorgenza di tumori.

Marta SangiorgiCerto è che chi dall’epatite C è guarito grazie ai nuovi farmaci è ben consapevole della portata di questa innovazione. Eloquente la testimonianza di Marta Sangiorgi, paziente seguita dal prof. Luchino Chessa, che ha raccontato di aver sperimentato tempo addietro, con esiti totalmente negativi, la terapia con l’interferone e di aver, invece, provato immediatamente benessere con la terapia innovativa, cominciata a ottobre 2015 e conclusa, dopo 3 mesi, a gennaio 2016. Una volta negativizzato il virus, i controlli periodici hanno evidenziato una situazione clinica via via migliore, in più la guarigione l’ha spinta a «modificare tante abitudini sbagliate: ho smesso di fumare, ho iniziato a fare attività sportiva…». Riguardo alla guarigione, su domanda del pubblico, il dott. Ganga ha chiarito che, dopo 6 mesi dalla fine del trattamento, la negativizzazione del virus e, quindi, la guarigione possono considerarsi definitive, anche se possono permanere danni al fegato, in particolare la fibrosi, i quali potrebbero, però, regredire. Sempre rispondendo a una domanda del pubblico, l’epatologo ha, inoltre, chiarito che, anche una volta guariti, è comunque sconsigliato donare il sangue.

 

Foto Giuseppe Argiolas

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