Epatite C e trapianti in Sardegna: considerazioni da Fordongianus (OR)
Luci e ombre delle nuove cure per l’epatite C e della sanità pubblica sarda (e non solo): questo il patrimonio informativo raccolto durante il convegno “L’epatite C si può vincere”, organizzato dalla Prometeo AITF Onlus a Fordongianus.
Domenica 19 ottobre 2014 si è svolto a Fordongianus il convegno “L’epatite C si può vincere”, organizzato dalla Prometeo AITF Onlus. Il tema, oltre a essere attuale, è di largo interesse, come hanno dimostrato la nutrita partecipazione all’incontro e il sentito ringraziamento alla Prometeo del sindaco di Fordongianus, Serafino Pischedda.
LA CURA DELL’EPATITE C: IL PASSATO – Orientarsi nella selva di nomi e iter burocratici che imbriglia i nuovi farmaci per la cura dell’epatite C è impresa ardua, impossibile da affrontare senza una guida. Chi ha partecipato al convegno di Fordongianus l’ha trovata nella giovane gastroenterologa Laura Mameli, responsabile del day hospital del Centro trapianti di fegato dell’ospedale “G. Brotzu” di Cagliari: preparatissima sull’argomento e al contempo estremamente chiara nell’esporlo a un pubblico composto per la stragrande maggioranza da non addetti ai lavori. Un esemplare di una specie rara, insomma, soprattutto considerato che a queste qualità si somma una grande umanità, emersa sin dalle sue prime parole: «Mi fa piacere vedere che non ci sono solo trapiantati a causa dell’epatite C. È una cosa bellissima perché si vede che volete tutti combattere questo problema».
E il problema è davvero grosso, visto che in Italia circa il 2% della popolazione ha questa malattia. Anche per tale ragione fa abbastanza specie notare che l’attenzione dei media sia ora tutta focalizzata su un altro virus, quello dell’ebola, che, invece, nel nostro Paese non ha, almeno per ora, fatto vittime, come ha evidenziato Luigi Bellu, eletto nella stessa giornata presidente del Comitato provinciale di Nuoro della Prometeo.
L’epatite C è, inoltre, una delle principali cause che possono determinare la necessità di un trapianto di fegato: i trapiantati per cirrosi da epatite C seguiti dal day hospital di Cagliari, ad esempio, sono più di un terzo del totale, ha precisato la dott.ssa Mameli. A questo già preoccupante quadro va aggiunto il fatto che il virus «determina una reinfezione e si trasforma in recidiva, colpendo l’organo trapiantato, dopo 6-7 mesi dall’intervento». Per di più, il decorso della malattia è anche più rapido nel post-trapianto: nel 20-30% dei casi il paziente può sviluppare una cirrosi dopo 5 anni, mentre un non trapiantato può svilupparla anche in 30 anni.
L’unico modo per bloccare il progredire della malattia, ha spiegato la gastroenterologa, è eliminare il virus e per farlo finora sono stati utilizzati «due antivirali messi a disposizione dal Servizio sanitario nazionale: interferone e ribavirina», farmaci che bloccano la replicazione del virus ma che, ha spiegato la dott.ssa Mameli, hanno due limiti:
– comportano notevoli effetti collaterali (anemia, riduzione dei globuli bianchi e delle piastrine, insonnia, calo dell’appetito…), che nei trapiantati si sommano a quelli causati dagli immunosoppressori rendendo difficile il loro utilizzo;
– danno risposte diverse a seconda del genotipo della malattia e non garantiscono la guarigione. Per quanto riguarda i trapiantati, la media nazionale di guarigioni si attesta al 18-33%, anche se il Centro trapianti di Cagliari, in particolare, ha raggiunto il 40%.
LA CURA DELL’EPATITE C: IL PRESENTE – Per questo la ricerca è andata avanti e già qualche anno fa – ha raccontato la gastroenterologa – si è cominciato a parlare di «farmaci che avrebbero cambiato la storia dell’epatite C». Tra questi c’è il Sofòsbuvir, che è già stato approvato in Italia e per il quale è stato finalmente definito il prezzo di mercato. Al momento, però, non è ancora in commercio e «potrebbero volerci dei mesi», ha precisato la dottoressa. Per di più, considerato il suo elevato costo, è molto probabile che il Sistema sanitario nazionale non lo fornirà gratuitamente a tutti i malati. “Ma si può acquistare a proprie spese?” ha chiesto uno dei partecipanti all’incontro. Con l’indicazione dell’epatologo, sì … se si dispone della modica cifra di 180.000 euro: questo è, il costo per un trattamento efficace ossia della durata di almeno 6 mesi (i 60.000 euro di cui si è parlato rappresentano, infatti, il costo per soli 3 mesi di cura).
Facendo le pulci al Sistema sanitario nazionale, però, questi costi risultano meno abnormi di quanto si voglia far credere: nel suo intervento, Luigi Bellu ha evidenziato che «ogni anno muoiono migliaia di pazienti affetti da epatite C e il costo per la sanità italiana per curare questi malati è pari a cento volte il costo che dovrebbe affrontare per fornire loro i nuovi farmaci». Anche per questo, ha affermato, è necessario che i malati si facciano sentire di più. Ed è quello che, come associazione dei trapiantati di fegato, intende fare l’AITF, rappresentata al convegno dal suo presidente Marco Borgogno. In particolare, questa chiederà al Ministro della Salute che il nuovo farmaco venga urgentemente immesso in commercio, anche perché in alcune regioni – quali il Piemonte – le scorte del programma di uso compassionevole si stanno esaurendo e mancano le risorse finanziarie per riacquistarne. L’AITF, inoltre, ribadirà che il farmaco deve essere fornito a tutti perché «la vita non può essere monetizzata». L’associazione si muoverà anche in Sardegna, tramite la Prometeo che ne è articolazione regionale, per sapere dalla Regione quanto intenda investire per rendere disponibile il Sofosbuvir.
Ma le grandi aspettative su questo nuovo farmaco sono motivate? A sentir parlare la gastroenterologa, la risposta più corretta sembra essere un nì. Da solo è inefficace, pertanto deve essere abbinato ad altri: rivabirina, da sola o con interferone, o un altro nuovo antivirale. E ancora non siamo davanti alla soluzione definitiva, ha chiarito la dott.ssa Mameli: questo farmaco ha un tasso di guarigione del 60-90%. Tuttavia, ha il vantaggio di essere molto efficace, di comportare meno effetti collaterali (se abbinato alla sola ribavirina) e di consentire trattamenti più brevi: 6 mesi contro i circa 12 delle terapie tradizionali. Inoltre, ha precisato la gastroenterologa rispondendo a uno dei quesiti posti dal pubblico, per ora viene somministrato solo agli adulti, mentre per i bambini esistono solo alcune sperimentazioni.
Per quanto riguarda la situazione dei trapiantati sardi con epatite C, uno (in trattamento da novembre 2013 grazie al programma di uso compassionevole degli Stati Uniti) è già guarito, mentre per altri diciotto sono state presentante le richieste di inserimento nel programma di uso compassionevole adottato qualche mese fa in Italia in attesa della definizione del prezzo di mercato. Di questi diciotto, undici stanno già utilizzando le nuove terapie, mentre per gli altri sette il Comitato etico deve ancora dare il suo responso, che si spera positivo anche alla luce del fatto che finora nessuna richiesta è stata respinta. L’iter da seguire, tra l’altro, è l’ennesima dimostrazione di come la burocrazia sia il peggior nemico degli italiani: per richiedere l’inserimento nel programma di uso compassionevole, i medici curanti devono presentare una documentazione dettagliata, nutrita e motivata prima alla casa produttrice del farmaco, la Gilead, e poi al Comitato etico. Se consideriamo che stiamo parlando di vite in bilico, ogni ulteriore commento è superfluo.
LA CURA DELL’EPATITE C: IL FUTURO – La vera speranza, dunque, è rappresentata dagli altri nuovi antivirali, da usare in combinazione con il Sofosbuvir: il Siméprevir, che, associato all’altro farmaco, ha un’efficacia del 95% dopo sole 12 settimane di trattamento; il Daclàtasvir, molto efficace, se abbinato al Sofosbuvir, per tutti i genotipi della malattia; l’Asunaprevir, che però non è ancora stato approvato in Italia; il Ledipasvir, anch’esso non ancora approvato da noi ma su cui ci sono grandi attese in quanto, combinato con il Sofosbuvir, garantisce la guarigione al 100% nei pazienti non cirrotici.
«Il futuro per me è roseo: tra qualche anno l’epatite C potrà diventare solo un ricordo» ha affermato la dott.ssa Mameli, concludendo il suo intervento.
QUALE FUTURO PER I TRAPIANTI IN SARDEGNA? – Le nuove cure per l’epatite C non sono state l’unico argomento di discussione: nel suo intervento, il dott. Fausto Zamboni, primario della Chirurgia generale e responsabile del Centro trapianti di fegato dell’ospedale “Brotzu”, ha parlato delle prospettive per i trapianti e, in generale, per la sanità in Sardegna (ma forse anche nel resto d’Italia). Per quanto riguarda il presente, è grande la sua soddisfazione: «Siete voi l’esempio vivente dei risultati di quello che stiamo facendo» ha esordito rivolgendosi ai trapiantati presenti in sala. I risultati finora raggiunti sono per lui molto positivi ma, come si addice a chi punta sempre al massimo, ha precisato che «quanto fatto è il punto di partenza per migliorare». Riuscirci, però, per il primario è difficile a causa di due problemi principali: il clima di incertezza e di attesa creato da una situazione politico-istituzionale che, a livello locale, è ancora «in evoluzione» e l’esigenza di fare cassa, che porta a praticare tagli «sempre sulla sanità». Grande è, infatti, la sua preoccupazione per il Sistema sanitario nazionale che – ha affermato – «dobbiamo tenerci stretto» e per il quale, tuttavia, si stanno gradualmente riducendo le coperture.
Zamboni è un uomo concreto che non fa giri di parole per indicare cosa non va e cosa va fatto per ottenere i risultati cui si afferma di voler puntare: i trapianti, ha spiegato, sono un “niente” in termini numerici (3.000 trapianti in un anno in Italia a fronte dei circa 9.000 pazienti in lista e dei 1.500 interventi all’anno praticati da una divisione media di Chirurgia), ma da un punto di vista qualitativo rappresentano un’eccellenza a livello europeo. Per questo, ha affermato, «dobbiamo lottare per quest’eccellenza e io combatto ogni giorno perché la qualità, l’organizzazione e la trasparenza che abbiamo nel piccolo, cioè nei trapianti, la portiamo nel grande, ossia nella Chirurgia generale. Dobbiamo far capire questo ai politici». E, quando Zamboni parla di questa rivoluzione, pensa, in realtà, all’intera sanità pubblica, chiamata ad assistere tutti i cittadini, in particolare coloro che – per limiti economici – non possono scegliere di rivolgersi alla sanità privata o a strutture sanitarie che operano fuori dalla Sardegna.
Per quanto riguarda il futuro del proprio Centro trapianti di fegato le sue indicazioni ai politici sono ancora più specifiche: per iniziare a praticare anche trapianti pediatrici (che «sono un mondo totalmente diverso», in quanto si tratta di «operare non bimbi sotto i dieci anni ma sotto i dieci chili») e trapianti “split liver” (ossia con fegato diviso) occorre potenziare la struttura, in particolare con una terapia intensiva dedicata e con l’arrivo di altri epatologi che abbiano seguito rigorosi percorsi di formazione specifica, come ha fatto la dott.ssa Mameli. Proposte che, ha precisato, va ripetendo invano da dieci anni ai vari interlocutori politici e istituzionali con cui ha avuto modo di confrontarsi.
Competenza, formazione, sacrificio, organizzazione e trasparenza sono gli elementi che hanno fatto del suo Centro un polo di eccellenza e a dirlo non è tanto lui quanto i fatti. La sua équipe è composta di giovani medici che – ha raccontato – stanno crescendo professionalmente perché sono stati selezionati in base alle capacità e all’esperienza sul campo, hanno seguito faticosi percorsi di specializzazione e lavorano in un ambiente multidisciplinare in cui chirurghi, epatologi, anestesisti e rianimatori imparano a collaborare e a contare gli uni sulle competenze degli altri. Sono giovani ai quali Zamboni sta dando la possibilità di affermarsi e fare carriera, proprio come – ha raccontato – a suo tempo ha fatto con lui a Torino il suo maestro: il prof. Mauro Salizzoni. La sua équipe è, cioè, l’esempio vivente che la meritocrazia può esistere anche in Italia e dove esiste fa davvero la differenza.
Ma la meritocrazia non si può affermare se le si rema contro. Uno di questi impedimenti è dato dalla precarietà del lavoro, condizione che subiscono molti giovani, anche estremamente competenti come la stessa dott.ssa Mameli. Per queste situazioni, per il futuro di questi giovani, Zamboni ha espresso «una grande preoccupazione, anche morale» perché «la precarietà è accettata in situazioni come gli stati Uniti, dove il posto fisso non esiste. Noi non possiamo applicare qui questa mentalità perché le cose sono diverse». Per questo, ha affermato in riferimento ai membri della sua équipe «voglio lottare perché tutti questi giovani diventino strutturati e abbiano anche una migliore qualità di vita: il lavoro, oltre un certo limite, è – a mio parere – la negazione della dignità dell’uomo» Parole che pronunciate da chi, quando necessario, deve sacrificare anche notti, domeniche e feste, fanno ancora più effetto. E che, a ben vedere, riguardano non solo i suoi giovani ma anche i tanti altri che, al pari di loro e come ha ricordato il primario, stanno esaurendo la pazienza per cui, se le cose non cambieranno, cercheranno lavoro altrove. La responsabilità dei vertici politici e amministrativi è grande e in casi come quello del Centro trapianti di fegato rasenta l’indecenza: «La Regione – ha evidenziato il primario – si è trovata personale formato a costo zero e non si è impegnata a dare risposte sul territorio».
SUPERARE LA “POLITICA DEL NULLA DI FATTO” – Zamboni si definisce (e i fatti lo confermano) «un uomo delle istituzioni» e allora un pensiero nasce spontaneo: se questo senso dell’istituzione, questa capacità di incarnare i valori in soluzioni concrete e questo modo di fare politica – ossia di occuparsi della res publica, della “cosa pubblica” – diventassero la norma tra i nostri governanti, allora sì che potremmo essere motivatamente ottimisti. Politiche, nel senso più nobile del termine, sono state, infatti, le sue riflessioni, in particolare una stimolata da alcuni interventi del pubblico: «Spesso qui [in Sardegna, ma il discorso forse si attaglia a tutto lo Stivale, ndr] si gioca per il nulla di fatto. Ma il nostro tempo è prezioso. Per ottenere le cose chiedono mille parole quando ne basta solo una: si fa o non si fa. Quando parlano di meritocrazia, sono solo parole. Il problema è che noi rimarremo senza giovani perché oggi in Italia non hanno possibilità e se non è la classe politica che si fa carico di queste situazioni, non può essere un chirurgo a risolverle. Certo è che la pressione di tutti può aiutare».
La volontà di fare, medici e pazienti, fronte comune per pretendere dalle istituzioni e dalla politica una sanità pubblica più efficiente c’è: la speranza è che porti i frutti desiderati.
Foto Prometeo AITF Onlus