Elisa e la “Casa dei trapiantati” raccontate da Alberto e Paola Deiana

di Marcella Onnis

Appuntamento per le 15.40 con colui che mi farà da autista, fotografo … e “tutor”: Pino Argiolas, presidente dell’associazione Prometeo A.I.T.F. Onlus. Destinazione: Selargius, nell’hinterland cagliaritano. Missione: conoscere meglio (per poi raccontare a voi lettori) l’attività dell’associazione Elisa Deiana Onlus e, in particolare, il suo progetto della “Casa dei trapiantati”. Una missione piuttosto urgente visto che, come vi abbiamo riferito circa una settimana fa, in giro c’è chi, usurpando il loro nome, cerca di truffare le persone.

Alberto e Paola Deiana hanno creato quest’associazione nel 2004, lo stesso anno in cui Elisa, la loro figlia maggiore, a soli 20 anni ha perso la vita in seguito ad un incidente automobilistico. L’hanno creata – così spiegano nel sito dell’ente – “per non dimenticare Elisa e quello che da sempre era il suo ideale: aiutare gli altri in qualsiasi modo”. E questa ragazza, con il suo sacrificio, ha fatto davvero tanto per chi aveva bisogno di aiuto: i suoi organi hanno salvato la vita a quattro persone. Non solo: grazie a questo grande gesto d’amore l’ospedale “G. Brotzu” di Cagliari è riuscito ad ottenere l’apertura del reparto specializzato in trapianti di fegato.

Casa Deiana è il “quartier generale” dell’associazione: il comune di Selargius a quanto pare non è ancora riuscito a trovare, come promesso, un locale in cui i soci possano riunirsi e organizzare l’attività. Entrando, i visitatori vengono accolti da decine di sorrisi: quelli accoglienti di Paola e Alberto ma soprattutto quelli di Elisa, ritratta in diversi momenti della sua vita.

Un paio di chiacchiere informali, in cui parliamo anche di Marco, il figlio minore dei coniugi Deiana, poi veniamo al dunque, come si suol dire. La prima domanda è sicuramente un po’ scontata: «Questo grande gesto d’amore ha reso più sopportabile la tragica perdita di vostra figlia?» Risponde Alberto: «Tengo a precisare che questo grande gesto d’amore lo ha fatto lei: noi ci siamo limitati a firmare. Era il suo volere donare gli organi, lo aveva detto a chiare lettere tantissime volte. La settimana precedente alla sua morte è successo l’incidente aereo in cui sono morti il dr. Ricchi e la sua équipe [il 24 febbraio 2004, mentre trasportavano un cuore da trapiantare, ndr]: io l’accompagnavo in Facoltà e lei, sentendo al notiziario la tragedia, mi fa: “Papà, ma come mai le persone sono così insensibili?” Ce l’aveva con chi decideva di non donare gli organi. Io le ho risposto: “È una questione personale. Le posizioni vanno rispettate.” E lei: “Sappi che io …” Quando mi sono reso conto che stava praticamente facendo un testamento, le ho detto: “Guarda che sarà un tuo problema. Anche papà è d’accordo, però dovrai essere tu a decidere.” E invece, purtroppo, dopo cinque giorni … [l’incidente che ha causato la morte di Elisa è avvenuto il 29 febbraio, ndr]»

Domando quindi se è mai capitato loro di pentirsi di questa scelta ed entrambi, senza esitare, rispondono: «No, no, assolutamente». Poi Alberto aggiunge: «Sennò sarebbe stata una morte totalmente inutile. Vent’anni!» «E se lei non avesse espresso questa volontà?» chiedo io. «Non lo so, sarei ipocrita a dire … In quel momento uno non riesce a pensare: fai operazioni automatiche. Ti crolla il mondo addosso in un secondo. Noi ora siamo altre persone.» Più tardi ci racconterà che, addirittura, quando ha saputo che per Elisa non c’era più nulla da fare, è stato lui stesso a chiedere in che condizioni fossero gli organi, se fosse possibile donarli.

Mentre parliamo, Pino ci scatta delle foto (contro la nostra volontà), ma Alberto non si fa distrarre e aggiunge: «Alla fine è stata una cosa che ci aiuta a vivere: io mi occupo quasi totalmente dell’associazione, punto. La mia vita è totalmente stravolta.»

Poi io leggo una frase tratta dal romanzo Mr Gwyn di Alessandro Baricco, che desidero commentare con loro: “[…] quando muore qualcuno, agli altri spetta di vivere anche per lui”. E faccio giusto in tempo a dire “Voi chiaramente state vivendo anche per Elisa …”  che Alberto anticipa la mia domanda (“Pensate che lo stiano facendo anche le persone che da lei hanno ricevuto il dono?”): «Non solo noi». Paola concorda e lui prosegue: «Io vedo Elisa in tutti i trapiantati. Conosco tutti quelli che hanno ricevuto gli organi di Elisa, però vedere Pino [che ha avuto un altro donatore, ndr] o vedere un altro è uguale: son tutti fratelli». Paola ribadisce: «Sì, non c’è differenza. Vedere Pino o Augusto [Augusto Artagnac, tesoriere della Prometeo, ndr], che ha ricevuto il fegato di Elisa, per me è lo stesso: son fratelli, provo affetto sia per l’uno che per l’altro.» Quindi interviene di nuovo Alberto: «So con certezza che Elisa continua a salvare le persone perché, attraverso la testimonianza, ci sono stati altri donatori.» Poi racconta l’esperienza di un amico che, ritrovandosi nella loro stessa drammatica situazione, ha chiesto loro consiglio su quale decisione prendere: donare gli organi oppure no. La loro risposta (“Guarda, è l’unica cosa che ci aiuta ad andare avanti”) ha favorito un altro, prezioso sì.

Chiedo poi quali siano state, più in dettaglio, le motivazioni che li hanno spinti a creare quest’associazione e Alberto dice di non saper dare una risposta. «La decisione è nata il giorno che al quinto piano, al “Brotzu”, mi hanno dato la notizia … È nata così … Qualcosa dovevo fare. Non sapevo neanche cosa volesse dire l’acronimo “onlus”, per dirle. Qualcuno mi diceva: “Piantiamo una pianta.” Piantiamo una pianta?! Io volevo fare qualcosa di concreto: creare un’associazione, divulgare l’importanza della donazione … Però nella mia testa è nata l’idea della casa e dell’associazione insieme.»

Paola interviene per raccontare che, dopo un paio di giorni dalla morte di Elisa, avevano trovato, nei suoi quaderni delle elementari, un compito che li aveva colpiti molto: la sua maestra leggeva agli alunni dei racconti e chiedeva loro di scrivere cosa ne pensavano; quel giorno, la maestra aveva letto un racconto dal titolo La casa dei sogni, che narrava la storia di un bambino povero che desiderava aver una casa grande con piscina, ed ecco cosa scrisse Elisa (anch’io riporto il testo come hanno fatto i suoi genitori, con la stessa forma semplice usata allora da lei, bambina di otto anni e mezzo, in quel maggio 1992): “Io ho tutto, però desidero avere una casa dove ospitare della gente che non ha casa, perché credo che sto facendo poco per loro. Io, non è che voglio una gran piscina, ma vorrei aiutare sempre le persone”.

«La maestra le ha messo ottimo, nonostante gli errori», mi dice Paola, con un pizzico di orgoglio. Poi commenta: «Era grande già da piccolina». E suo marito aggiunge: «Non era una creatura per questa terra».

Si dice che dei morti non si debba parlar male e questa regola spesso si traduce nell’ingigantirne i pregi o attribuir loro caratteristiche positive che, in realtà, non possedevano, ma queste foto e questi suoi pensieri dimostrano che Elisa aveva davvero volto e cuore d’angelo.

Poi Paola continua a raccontare e spiegare com’è nato il loro progetto: «Questo sogno [della casa grande per ospitare persone bisognose di aiuto] noi l’abbiamo interpretato così, come una cosa bella. Un sogno lontano, che non ha confini.» Lei e il marito ci spiegano che la casa che stanno costruendo non ha ancora un nome, però ormai tutti – parenti, amici, conoscenti, simpatizzanti … – la chiamano la “Casa di Elisa”. «Il nome è nato così, dalla gente» dice Paola.

Grazie a uno dei “guizzi giornalistici” di Pino, parliamo anche del rapporto con le altre associazioni. Ci spiegano che alcune, almeno inizialmente, si sono dimostrate diffidenti nei loro confronti e concludiamo che, anche in questo settore, esiste purtroppo la gelosia. Un fatto che stupisce molto Paola perché, dice, “andiamo tutti verso lo stesso obiettivo”. E l’obiettivo è sia promuovere la donazione che fornire assistenza a trapiantandi e a trapiantati. Per questo discorriamo pure di quella che sarà l’organizzazione della Casa di Elisa, che dovrà fare i conti con la posizione geografica: si trova, infatti, ad alcuni chilometri da Cagliari e, quindi, dall’ospedale “Brotzu”. Ci spiegano che offriranno ospitalità ai trapiantati che devono effettuare i controlli periodici e che, non vivendo nel capoluogo isolano o nelle sue prossimità, necessitano di un alloggio per sé e per i loro eventuali accompagnatori. Forniranno, inoltre, un mezzo per il trasporto da e verso l’ospedale. E tutti i servizi saranno completamente gratuiti. Dice Alberto: «Starà alla coscienza delle persone: se se lo potranno permettere, daranno qualcosa. Perché noi abbiamo vissuto esperienze dirette di trapiantati disperati e di istituzioni assenti. E poi questa è la nostra terapia, oltretutto.» Scambiamo un paio di opinioni, poi riprende: «Io ormai con la vita ho un rapporto particolare: non mi spaventa più niente. Siamo in mani non nostre e ognuno ha i propri compiti». Così ritorniamo a parlare dell’attività di sensibilizzazione. È soprattutto a quest’ultima, infatti, che si devono i dati incoraggianti registrati in Sardegna nel 2011, che ci illustra Pino: raggiunta la quota dei100 trapianti, con un calo dei “no” alla donazione di circa il 10 per cento.

Ovviamente parliamo anche dei medici che si occupano di donazioni e trapianti. Mi raccontano di quanto lì a Cagliari siano umani, soprattutto il dr. Ugo Storelli. «Hanno un compito ingrato» commenta Alberto, che più tardi dedica un pensiero pure a quei genitori i cui figli necessitano di un trapianto. Lui e Paola immaginano la loro disperazione, perché “un organo non lo puoi comprare al supermercato”. «Io, almeno, non avevo da combattere» dice Alberto, poi aggiunge: «Sono queste le cose che devono far riflettere sia i giovani che i genitori. Sono cose di cui bisogna parlare

Facciamo delle considerazioni anche riguardo alle leggi in materia di donazione e di silenzio-assenso: le nostre posizioni non combaciano perfettamente, ma ci troviamo tutti d’accordo che lo scenario preferibile è che l’auspicato aumento delle donazioni si verifichi per un moto spontaneo della nostra società, grazie a un cambiamento culturale, e non perché imposto da una norma.

Arriva, infine, il momento di andare a visitare la struttura in costruzione. Perché se Casa Deiana è mente e braccio dell’associazione, la “Casa di Elisa” ne è certamente il cuore. Prima di andare, però, rivolgo un’ultima domanda ad Alberto e Paola: «Pensando ai recenti e squallidi episodi di cui siete stati in qualche modo vittime, cosa vi fa più paura come associazione: i tagli alla spesa pubblica o la disonestà di chi organizza truffe, celandosi dietro finte raccolte fondi a scopo benefico?» Risponde Alberto: «Mi fanno paura tutte e due le cose, ma non tanto per noi, perché la casa la termineremo a qualsiasi costo. A costo di mangiare pane e cipolla con mia moglie. E poi, forse, per la gestione un contributo ce lo daranno [per la realizzazione di queste opere strutturali – hanno spiegato ad Alberto – non sono invece previsti contributi]. I tagli alla spesa pubblica mi spaventano per i giovani.»

Saliamo dunque in macchina, diretti verso Soleminis (CA), perché è lì che il loro sogno sta prendendo forma. In questo Comune, mi spiega Paola, hanno trovato grande collaborazione. Qui sì, una sala in cui i soci possano riunirsi gliel’hanno trovata.

Il loro è un sogno talmente ambizioso da suonare folle, eppure sta diventando realtà. La casa è grande e a vederla sembra ancora più incredibile che siano riusciti a tirar su queste mura senza alcun finanziamento pubblico. Paola e Alberto ci mostrano i vari ambienti e ci spiegano la destinazione di ciascuno. Hanno le idee chiarissime anche sui mobili con cui arredare le stanze e su come disporli. È facile, sentendoli, immaginare questa casa ultimata e operativa: grande, bella e soprattutto accogliente. Alberto definisce il loro progetto “una goccia in un mare” e forse lo è rispetto al “mare dei bisogni”, ogni giorno più esteso e profondo. Ma se non ci fosse questa goccia (costata già 7 anni di fatica), anche il deserto dell’indifferenza, della rassegnazione e della paura sarebbe ogni giorno più esteso.

In cassa per ora l’associazione ha circa 30 mila euro, ma per ultimare il progetto (arredi compresi, mezzi e personale esclusi) ci vorrà almeno il triplo: una cifra altissima, ma non proibitiva se saremo in tanti a donare “mattoni” per la “Casa di Elisa”.

 

Foto di Pino Argiolas

1 thought on “Elisa e la “Casa dei trapiantati” raccontate da Alberto e Paola Deiana

  1. Lei ha parlato con le Persone più generose alMondo il Regalo che
    hanno fatto non ha prezzo. La Casa di ELISA è il collante delle due
    onlus.Miauguro che si affianchino e collaborino tutte e due per il
    bene delle persone trapiantate.Voglio ancora ringraziare ALBERTO e
    PAOLA è fargli sapere che io ci sono per qualsiasi cosa.
    Un abraccio Augusto

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