Donne e trapianto

pubblico al congresso SISQT

di Marcella Onnis

Dal 30 novembre al 2 dicembre 2016 si è svolto a Firenze il congresso nazionale della Società italiana per la sicurezza e la qualità nei trapianti (SISQT), che quest’anno ha dedicato molta attenzione a temi legati al mondo femminile.

congresso SISQT 2016LA GRAVIDANZA DOPO IL TRAPIANTO DI FEGATO – Tra questi temi, la maternità dopo il trapianto che – ha affermato la dott.ssa Patrizia Boccagni dell’Azienda ospedaliera di Padova – «per molte pazienti è un obiettivo da raggiungere» e, inoltre, «rappresenta un buon indicatore del successo del trapianto». La relatrice si è soffermata, in particolare, sulla gravidanza dopo il trapianto di fegato, di cui si è avuto il primo caso 50 anni fa: oggi disponiamo, pertanto, di molti dati in base ai quali è possibile affermare che, seppure le possibilità che si verifichi una gravidanza post-trapianto non siano elevate, comunque non è più un evento sporadico. Non solo: per la dott.ssa Boccagni si può ipotizzare un trend di crescita in quanto un terzo dei pazienti trapiantati sono donne che, a loro volta, includono un terzo di donne in età fertile e un 15% di pazienti pediatriche con una possibilità superiore al 70% di raggiungere l’età fertile. I dati finora raccolti mostrano che la gravidanza post-trapianto «ha esiti favorevoli sia per la madre che per il figlio» ed è tendenzialmente sicura per entrambi, anche se «ci sono dei rischi addizionali da considerare» per cui va inclusa tra le gravidanze a rischio. Per tali ragioni, a suo parere deve essere seguita, con un approccio multidisciplinare, sin dal concepimento, anzi, possibilmente già nel pre-trapianto. Nel 90% dei casi, infatti, il trapianto di fegato ristabilisce le funzioni sessuali che prima dell’intervento sono spesso alterate dalla malattia epatica (il 50% delle pazienti, per esempio, ha problemi di amenorrea), dunque aumenta la possibilità di una gravidanza subito dopo l’intervento, eventualità da scongiurare in quanto incrementa il rischio di complicazioni e di rigetto dell’organo. La paziente deve, pertanto, essere adeguatamente informata sui rischi in cui incorrerebbero sia lei che il feto e se questi sono alti, è opportuno consigliare la contraccezione: il più raccomandato – ha spiegato la relatrice – è il preservativo perché non interferisce con i farmaci, previene le malattie sessualmente trasmissibili (il che lo rende particolarmente indicato per le pazienti che non hanno un partner stabile) e non presenta rischi di infezione, in particolare vaginale come, invece, altri tipi di contraccettivi (quale, ad esempio, il diaframma); quanto ai contraccettivi orali, hanno più o meno le stesse indicazioni valide per le persone non trapiantate, ma occorre tenere presente che influiscono sull’assorbimento dei farmaci immunosoppressori. La sterilizzazione, invece, in quanto metodo irreversibile, viene raccomandata solo alle pazienti che hanno già figli e non ne vogliono altri.

Per la dott.ssa Boccagni, il periodo ottimale per avere una gravidanza è a distanza di 1-2 anni dal trapianto, possibilmente in presenza di altre condizioni favorevoli, tra cui l’assenza di episodi di rigetto nell’anno precedente, l’assenza di infezioni acute, livelli stabili di immunosoppressione, buona funzionalità epatica e buona aderenza alle terapie. I medici che seguono queste donne devono essere vigili in tutte le fasi della gravidanza, ha spiegato, precisando che occorre, in particolare, modulare al minimo il dosaggio dei farmaci immunosoppressori in modo da evitare rischi per il feto. Questi farmaci, peraltro, hanno effetti negativi sulla fertilità sia maschile che femminile e alcuni tipi – ha evidenziato la relatrice – sono sconsigliati in gravidanza se non addirittura assolutamente controindicati, come nel caso del Micofenolato. L’assunzione degli immunosoppressori rileva pure nel post-parto in quanto tali farmaci passano attraverso il latte materno, da qui la controversa questione se sconsigliare o meno l’allattamento al seno, ha spiegato la relatrice. Nelle gravidanze post-trapianto, inoltre, aumentano di 2-3 volte le possibilità di complicazioni per il feto e per la madre, così come maggiore è la percentuale di casi in cui si manifestano fattori di rischio quali ipertensione (causata soprattutto dall’assunzione della ciclosporina), diabete o insufficienza renale cronica. Maggiore è anche il ricorso al parto cesareo, ma non sono frequenti la morte della madre né le emorragie ante-parto. Aumenta, però, fino al 20% l’incidenza del rigetto, non tanto per la gravidanza in sé quanto perché diminuisce la risposta all’immunosoppressione, ha chiarito la dott.ssa Boccagni. Rassicurante e anche sorprendente, invece, scoprire che la percentuale di bimbi nati vivi è di circa 10 punti superiore tra i parti da madri trapiantate che tra quelli da madri non trapiantate. E più basso è il tasso di aborti, in quanto le madri trapiantate sono «una popolazione estremamente selezionata».

DONNE E TRAPIANTO DI RENE L’intervento della prof.ssa Maria Francesca Egidi (Direttore della Nefrologia, trapianti e dialisi dell’Azienda ospedaliero-universitaria di Pisa) ha, invece, analizzato il rapporto tra donne e trapianto di rene. La relatrice ha subito precisato che in presenza di insufficienza renale cronica è difficile diagnosticare le disfunzioni sessuali, peraltro poco studiate, soprattutto nelle donne: per lei una grave mancanza, considerato che possono anche causare infertilità. Poco noto è forse il primo dato fornito dalla prof.ssa Egidi: il 3% delle donne in età fertile ha un deficit funzionale renale e molte donne iniziano la gravidanza senza sapere di averlo. Un problema di non poco conto, visto che l’insufficienza renale è un fattore di rischio sia per l’esito della nefropatia che per il feto, tuttavia – ha rassicurato la relatrice – la prognosi oggi è migliorata grazie ai più accurati controlli sulla madre e sul bambino: nei casi di insufficienza renale non grave, la sopravvivenza neonatale attualmente è di circa il 90%. Anche per questo, è preferibile affrontare una gravidanza quando l’insufficienza renale è in fase precoce: se è, invece, in fase avanzata e la paziente è in dialisi, a suo parere è preferibile attendere il trapianto. Peraltro, ha aggiunto, durante la dialisi la fertilità è fortemente ridotta, in particolare se ci si sottopone a quella peritoneale piuttosto che all’emodialisi. Aumenta, inoltre, il rischio infettivo, anche se «la mortalità materna è ormai quasi azzerata». Da segnalare anche che spesso le donne con nefropatie sono amenorroiche, per cui non sempre sono consapevoli di essere gravide; dopo 1-20 mesi dal trapianto renale, invece, si ripristina il normale ciclo ovulatorio, per cui aumentano le possibilità di una gravidanza. Quest’ultima influisce sempre sui reni (per esempio, provocando, di norma, un aumento delle sue dimensioni e una variazione dei livelli di creatinina), per cui tali mutamenti sono da tenere presenti nelle gravidanze che seguono un trapianto di rene. Non solo, similmente al trapianto di fegato, anche in questo caso esistono dei rischi (ipertensione, rigetto acuto e rischi immunologici infettivi) che rendono necessario «pianificare la gravidanza e assistere la paziente in tutte le sue fasi». La relatrice ha informato che i parti prematuri hanno una percentuale del 40-50% e che nel 15% delle gravidanze la funzionalità del rene peggiora, con un 10% di probabilità di perdita dell’organo. Tuttavia, ha rassicurato sul fatto che i rischi non sono in generale più alti che nelle gravidanze “normali”, in quanto la gravidanza ha comunque un esito positivo nell’80-90% dei casi. Anche per questo tipo di trapianto, inoltre, prima di affrontare una gravidanza è consigliato attendere 15-20 mesi e, a salvaguardia di madre e feto, la stabilizzazione della situazione immunologica.

pubblico al congresso SISQTA Pisa, ha raccontato la prof.ssa Egidi, esiste un gruppo specializzato che assiste le donne a rischio, in quanto nefropatiche o trapiantate di rene, già dal momento in cui si mostrano interessate alla gravidanza e questa è la tendenza in tutta Italia. Esistono, però, ancora margini di miglioramento, ha ammesso, segnalando che da loro, per esempio, manca il supporto psicologico, soprattutto per le pazienti che non riescono a restare incinta o a portare a termine la gravidanza. Secondo la dott.ssa Boccagni le stesse necessità si presentano per tutti i trapianti di organi solidi e siamo indietro come approccio perché la gravidanza «è un tema negletto», il che fa sì che molte pazienti siano poco istruite e seguite dopo il trapianto, incappando di frequente in gravidanze indesiderate.

IL TRAPIANTO DI UTERO – Particolarmente affascinante si prospettava e si è rivelato l’intervento sul trapianto di utero del prof. Mats Brännström del Dipartimento di Ostetricia e Ginecologia dell’università di Göteborg. Se tutt’oggi questo tipo di intervento crea ancora un po’ di sbalordimento, non sembra certo strano che, nell’ormai lontano 1998, lo stesso ginecologo restò spiazzato quando una sua paziente gli chiese per la prima volta di eseguire su di lei un trapianto d’utero per curare la sua infertilità. Tuttavia, Brännström prese seriamente in considerazione la richiesta e cominciò a considerare il trapianto da un nuovo punto di vista: non più limitato a ripristinare il funzionamento di organi vitali ma ampliato agli organi che contribuiscono a determinare la qualità della vita della persona. Per prima cosa fu, quindi, avviata la sperimentazione sugli animali (1999-2002), poi nel 2013 si avviò lo studio clinico (clinical trial) e nel 2014 ci fu la nascita del primo bimbo a seguito di un trapianto di utero. In Svezia tale tecnica viene eseguita da circa 15 anni grazie a investitori privati e a donatrici viventi. Su richiesta dei colleghi, Brännström ha chiarito in proposito che le donatrici morte sono troppo poche, in più in questa fase sperimentale stanno operando solo nei weekend, per cui hanno necessità di pianificare gli interventi, cosa possibile solo con donatrici viventi.

I primi tentativi – ha raccontato – non garantivano i risultati sperati e comportavano rischi sia per la ricevente che per la donatrice, anche se, a distanza di 2-3 anni dal prelievo, nessuna ha avuto problemi gravi. Con il tempo sono stati definiti i criteri per la scelta ottimale della donatrice (che, in particolare, deve possedere un utero fertile) e della ricevente (che, tra le altre cose, deve avere un’età tra i 27 e i 38 anni, essere in salute e non essere fumatrice). L’équipe aveva preventivato per l’intervento – che non include le ovaie – una durata massima di 4-6 ore, ma i tempi reali sono saliti a 10,5-13 ore perché la procedura è complessa, tuttavia per Brännström tale durata scenderà con il tempo. In particolare, in Svezia si punta a ridurre a 6-8 ore la durata dell’intervento per il prelievo dell’organo. La degenza post-operatoria per la donatrice è di 6 giorni, mentre per la ricevente va dai 4 ai 9 giorni, ma c’è il vantaggio che l’intervento non richiede trasfusioni. Sette pazienti trapiantate hanno visto ricomparire le mestruazioni già dopo 1-2 mesi dall’intervento; una è rimasta incinta al primo impianto di un singolo embrione (la gravidanza spontanea è difficile e rischiosa, ha chiarito il ginecologo); due trapiantate sono già alla seconda gravidanza e una paziente ha portato a termine la gravidanza pur avendo solo un rene. I nati sono in tutto cinque, ma sia in Svezia che in altri Paesi sono stati registrati vari fallimenti per cui – ha rimarcato il prof. Brännström – sia medico che paziente devono essere preparati a questo esito negativo. Il primo deve, inoltre, calcolare accuratamente i rischi per la seconda, tenendo conto che l’obiettivo è la nascita di bambini sani, non solo la riuscita tecnica dell’intervento. E, per raggiungere questi risultati, a suo parere è fondamentale creare un solido team.

LA DONAZIONE DI OVOCITI – Di donazione di ovociti, in particolare nel modello spagnolo, si è invece occupata la dott.ssa Elisabet Clua Obradò, Coordinatrice del programma di donazione “Salute della donna Dexeus dell’Ospedale universitario Quiron Dexeus di Barcellona. Questo tipo di donazione, ha spiegato, è praticata in molti stati europei, ma in Spagna è molto diffusa grazie a una legge progressista che consente anche di assistere pazienti straniere. Tale legge prevede, in particolare, che la donazione debba essere gratuita, riconoscendo però alla donatrice un indennizzo per le spese affrontate (tra viaggio, assenza dal lavoro, costi di ricovero, ecc., il costo complessivo dell’intervento per la donatrice è stato calcolato in 916 euro). Molta attenzione è, quindi, posta nella promozione, per evitare che la donazione sia vista come un modo per ottenere un vantaggio economico. Il rischio per la donatrice è praticamente zero, ha spiegato la dottoressa spagnola, precisando poi che la donazione in Spagna avviene in modo anonimo e che l’anonimato viene infranto solo in caso di eventuali rischi per il bambino. In altri paesi, invece, non è anonima e questa per lei è la tendenza destinata ad affermarsi. I requisiti previsti dal modello spagnolo per diventare donatrici (età, storia clinica, stato di salute…) sono stati ridefiniti recependo la relativa direttiva europea e includono l’aver compiuto 18 anni; non rilevano, invece, stato civile e orientamento sessuale. È, inoltre, possibile donare più volte gli ovociti. Sono previsti test, anche genetici, per la donatrice, la ricevente e il marito di questa, in modo da evitare possibili malattie del bambino. La dott.ssa Clua Obradò ha precisato, inoltre, che l’équipe garantisce solo la massima vicinanza tra le caratteristiche fenotipiche e immunologiche della ricevente e della donatrice, ma non anche che il bimbo nasca con le caratteristiche eventualmente desiderate, per esempio biondo con gli occhi azzurri.
Nel caso di riceventi con più di 45 anni consigliano di affidarsi a medici specializzati in gravidanze ad alto rischio, ma questo tipo di paziente – ha affermato – è ormai frequente: secondo il registro spagnolo della fertilità, obbligatorio da quest’anno, il 60% delle riceventi ha più di 40 anni.
In base ai dati degli ultimi anni, la percentuale di parti sul totale delle donazioni di ovociti effettuate è del 30-40%, con un tasso di riuscita superiore in caso di ovociti freschi piuttosto che congelati, cui si affianca un 14% di aborti
Il modello spagnolo, ha affermato la relatrice, garantisce qualità e sicurezza, ma presenta ancora dei limiti, tra cui la mancata istituzione del registro nazionale delle donatrici, previsto dalla legge spagnola con la raccomandazione che sia comunque garantita la riservatezza di queste come delle riceventi.

Dario SacchiniDILEMMI ETICI – Tecniche come quelle sopra descritte, così come la maternità surrogata, sollevano ingombranti interrogativi etici, sui quali si è soffermato il prof. Dario Sacchini, esperto di bioetica dell’Università cattolica del Sacro Cuore di Roma. La bioetica – ha premesso Sacchini – sta diventato sempre più rilevante nell’elaborazione delle politiche pubbliche e, soprattutto in casi come questi, spinge a interrogarsi sul «ruolo sociale della medicina», se, cioè, questa debba configurarsi o meno come una «medicina dei desideri», chiamata a «rispondere alle aspettative sociali del paziente». In questo caso, in particolare, occorre chiedersi se – come recitava il titolo del suo intervento –  la maternità debba intendersi come necessità, diritto o piacere. La risposta, ha precisato il relatore, risente della percezione sociale della donna infertile, che varia di area in area: nel mondo arabo, per esempio, questo è un problema molto sentito il che – a suo parere – può spiegare il fatto che proprio in questi Paesi siano stati compiuti i primi esperimenti di trapianto d’utero illustrati dal prof. Brännström. Per la maternità surrogata entrano, inoltre, in ballo anche i concetti di maternità e famiglia, oggi notevolmente evoluti, al punto che – ha affermato il prof. Sacchini – non vi è necessaria coincidenza tra madre genetica, madre gestazionale e madre sociale. Esistono poi problemi pratici da affrontare, quali i meccanismi da adottare per evitare che le compensazioni economiche per la madre surrogata non configurino forme di sfruttamento paragonabili alla prostituzione e alla schiavitù.
Tirando le somme, sembra che anche su questi temi la bioetica non riesca a trovare soluzioni definitive e universalmente accettate, tant’è che – come ha rilevato lo stesso Sacchini – il Vaticano non ha preso una posizione netta neppure sulla questione degli embrioni congelati non utilizzati. Gli unici punti fermi che la sua relazione ha evidenziato in questo ambito specifico sono la necessità di interrogarsi sul diritto alla maternità con attenzione anche al figlio e la possibilità di riconoscere alle donne un diritto all’accesso alle cure per l’infertilità.

 

Foto Giuseppe Argiolas

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