1981 – 2011: a trent’anni dalla Dichiarazione (dell’Onu) dell’Anno Internazionale dell’Handicappato, la realtà del passato insegna?

Per secoli gli atteggiamenti nei confronti degli handicappati, o comunque delle persone con difetti fisici e/o psichici, comprendevano due comportamenti diversi e opposti: uno di rifiuto di fronte a un fenomeno estraneo e minaccioso e uno di protezione in quanto l’handicappato viene considerato incapace di provvedere a sé stesso. Di volta in volta l’handicappato appare come una figura demoniaca oppure come una persona che con la semplicità si avvicina maggiormente al mondo divino.
Secondo alcune fonti storiche, nella Sparta del IX sec. a.C. i neonati deboli e deformi venivano gettati dall’alto del monte Taigeto, come prescrivevano le leggi di Licurgo. Ma anche a Roma nel V sec. a.C. le leggi delle XII Tavole prevedevano un simile trattamento per gli handicappati. Solo con il Medioevo, anche per l’influenza determinante (in parte) del Cristianesimo, si costituiscono confraternite con fini assistenziali che si prendono cura dei ciechi, dei paralitici, dei lebbrosi (oggi si dice “hanseniani”, n.d.r.). In questo periodo il Cristianesimo offre alla società medievale una nuova chiave per interpretare la menomazione e la differenza: l’esclusione non è più totale ma limitata, ed offre un’altra forma di comunicazione. Ne consegue una ricca presenza di handicappati, seppur tendenzialmente allontanati dal mondo sociale e dalla collera di Dio.
A partire dal XVII secolo i disabili vengono a costituire una popolazione molto varia, composta non più soltanto da minorati fisici e folli, ma anche da poveri, oziosi, disoccupati, trattati tutti alla stessa stregua, sino al diffondersi sempre più della “logica dell’emarginato”. Contemporaneamente, e in modo più evidente dopo il XVII secolo, si notano persone che vivono ai margini della società. È per motivi morali che nel gruppo sociale si comincia a trovare uno spazio particolare per gli handicappati. Nel secolo XVIII era ancora radicata la tendenza alla segregazione, soprattutto in grandi ospedali. Con l’Illuminismo le opere di beneficienza tendono ad assumere una veste più razionale e si cerca di affrontare il problema degli handicappati in modo scientifico. Ovunque c’è l’interesse per l’aspetto legislativo.

Un contributo importante viene dato dallo psichiatra e scienziato francese (Jean-Ètienne Dominique Esquirol (Tolosa 1772-Parigi 1840), che fornisce la prima definizione scientifica della deficienza mentale, in cui essa viene considerata come uno stato di mancanza di sviluppo delle facoltà intellettuali (condizione caratterizzata da un mancato sviluppo delle facoltà intellettive). Sempre in questo periodo inizia la ricerca delle cause degli handicap. Lo psichiatra viennese Bénédict-Augustin Morel (Vienna 1809-Rouen 1873) evidenzia la teoria della “degenerazione familiare” in base alla quale in alcune famiglie, nel corso delle generazioni successive, si verificherebbe un progressivo imbarbarimento della specie per cui verrebbero generati delinquenti, malati mentali e deficienti. Nonostante lo sforzo di affrontare gli handicap in un modo più razionale, di fatto rimane l’idea che essi abbiano un segno morale negativo. Dà alla luce un figlio handicappato chi ha maggiori colpe e peccati nella propria famiglia. Anche la segregazione in luoghi isolati viene presentata come la forma di cura più soddisfacente.

Inamovibili sono i criteri e gli atteggiamenti discriminanti e di emarginazione. Nel contempo, è altresì diffusa l’opinione che considera la minorazione come conseguenza di gravi colpe da parte dei familiari. Nel 1912 lo psicologo educativo svizzero E. Walter Fernald (1879-1950) giunge addirittura ad affermare che “i deboli di mente sono elementi parassiti e sfruttatori non in grado di mantenersi né di provvedere a sé stessi. La maggior parte di loro è diventata ultimamente un problema pubblico: essi sono causa di indicibili sofferenze nell’ambito della famiglia e costituiscono una minaccia e un pericolo per la comunità. Le donne deboli di mente sono, quasi senza eccezione, immorali. Ogni individuo debole, specie se grave, è un criminale in potenza al quale mancano soltanto l’ambiente e l’occasione propizia per dar sfogo alle sue tendenze criminali”.

Ma non meno significativo è il fatto che, secondo alcune indagini, vi è una notevole confusione ed una altrettanta estrema imprecisione quando si parla di ritardo mentale. Sovente non viene fatta alcuna distinzione fra le varie forme e i diversi livelli di gravità degli handicap, e per quanto riguarda le cause, l’opinione comune è piuttosto orientata ai traumi da parto. In molti casi ancora radicati sono i pregiudizi: l’idea che la debolezza mentale è una malattia della mente, oppure che la sterilizzazione rappresenta la miglior soluzione del problema (nel 1923 erano 23 gli Stati degli Usa che adottavano la sterilizzazione per gli handicappati); per non parlare poi dei pregiudizi nei confronti dei malati di epilessia, condizione morbosa che alcuni membri della Comunità europea ritengono essere una malattia mentale o psichiatrica, e non neurologica come è in realtà.
Tuttavia, all’interno di un atteggiamento generale si è notato che alcune persone più di altre riescono ad avvicinarsi all’handicappato con maggiore serenità e comprensione; e va da sé che quanto più una persona ha un buon equilibro psichico tanto più ha un buon atteggiamento favorevole rispetto alla persona disabile, senza sentirsi da questo “minacciato”  dalla sua diversità. Questa situazione, particolarmente pesante e difficile è aggravata dalla cosiddetta “cultura d’oggi”, ovvero la mitologia del bello e, per certi versi, della produttività. Una mitologia che crea continuamente nuovi soggetti handicappati; ossia, la persona che non rientra nei canoni estetici di bellezza ed efficienza (in qualunque contesto sociale) viene emarginata. Ma la persona con handicap, comunque, proprio perché non è di “un’altra specie”, ma anch’essa umana, costituisce sempre un caso a sé, unico e non standardizzabile.

Solo dopo la II Guerra mondiale, anche per il ruolo determinante delle associazioni di famiglie di handicappati, l’atteggiamento sociale si modifica con una maggiore disponibilità e un maggior interesse per i problemi degli handicappati. Ed è così che con il passare degli anni il problema ha assunto importanza mondiale con la “Dichiarazione dei diritti del fanciullodel 1979, ma in particolar modo con la “Dichiarazione dei diritti degli handicappati”, adottata nel dicembre 1975 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite con la Risoluzione n. 3447. Sono testi che sottolineavano il diritto del fanciullo minorato a ricevere un’educazione, al pari dei suoi coetanei cosiddetti “normodotati”.
Per diversi anni queste iniziative costituirono lo spunto per petizioni di principio, senza possibilità di concretizzarsi. Ma le notizie più confortanti provenivano dalla scienza, in modo particolare per quanto concerneva una maggiore conoscenza delle cause dell’handicap e dei necessari interventi riabilitativi. Tutto ciò, sulle basi delle acquisizioni della psicologia dell’età evolutiva e della neuropsichiatria infantile, che mettevano in risalto le normali linee di sviluppo della personalità umana.

 

LA “CORRETTA” TERMINOLOGIA

Non è per cavillosità del significato né per porre questioni oziose che mi soffermo sulla parola HANDICAP. Il lessico dell’handicap ha radici nelle idee di inadeguatezza al compito sociale e di sofferenza. Ancora agli inizi del nuovo secolo era diffuso il termine infelice per indicare una qualunque disabilità, né la nomenclatura si è molto evoluta col tempo, attestandosi su espressioni come invalido, inabile, mutilato, handicappato, minorato, diversamente abile, etc. La parola è un suono-simbolo che si attribuisce alle cose, nel momento stesso in cui le collochiamo dentro un ben definito sistema di riferimento che siamo soliti chiamare cultura, tradizione, civiltà. Ma l’handicap è anche una questione di parole. Non sono poche le difficoltà per la creazione di una reale cultura dell’handicap; tuttavia, per capire il senso di questo termine che con troppa faciloneria affibbiamo ad alcune (o forse troppe) persone, è importante cogliere il sistema di riferimento di cui fa parte.
Con questo vocabolo, pronunciato per lo più tra la compassione e il disprezzo, si intende significare una qualsiasi situazione di svantaggio che rende una persona “diversa” dalle altre, nel senso che la riteniamo inferiore… Il vocabolo, infatti, di origine anglosassone, proviene dal gergo ippico ed è riferito ad un sistema di competizione sportiva di natura equestre che è fondato sull’attribuzione di vantaggi differenziati a favore dei singoli cavalli. La parola handicap porta in sé, quindi, il concetto di disparità, di diseguaglianza, di competitività, di ostacolo da superare. Questo termine, riferito all’uomo, vuol significare la parte, per definizione e per principio, “non vincente” dell’umanità nella competizione della vita; quella in stato di inferiorità, di limite…

Oggi, la parola HANDICAP, rappresenta sempre più l’importanza della dimensione sociale. Nella definizione dell’Oms del 1954 il termine handicap veniva definito come una vasta condizione che si presenta con grado, causa, patologia e aspetti sociali diversi, caratterizzati però da uno stato incompleto della psiche, tale da rendere la persona incapace di adattarsi all’ambiente sociale in modo “normale” ed “armonico”. Ma considerando la capacità di adattamento come criterio per valutare se una persona è normale o no, si corre il rischio di interpretare ogni forma di disadattamento come handicap. In questo modo il concetto di handicap viene ampiamente esteso, sino a comprendere situazioni molto diverse. La persona definita “deviante”, ad esempio, è quella che non è in regola con le definizioni e le norme del gruppo sociale; e questa violazione, presunta o reale, provoca reazioni che si esprimono tramite punizioni ed etichette.
In molte realtà la condizione di handicap è quella del non desiderato; diventa quasi sempre un capro espiatorio dell’aggressività del gruppo sociale, con un ruolo socialmente svalutato che lo rende vittima dell’emarginazione. È la società che in una certa misura determina e definisce l’handicappato. La scuola, ad esempio, attraverso gli ostacoli del rendimento e delle bocciature (anche per la carenza degli insegnanti di sostegno), come pure l’ambiente di lavoro che, rifiutando in diversi modi la persona handicappata, contribuisce in modo determinante a penalizzarla rendendola a volte più “diversa”… L’handicappato non è considerato come individuo affetto da una menomazione, ma come una persona menomata nel suo complesso. L’inferiorità nell’esercizio di una funzione viene estesa a tutta la persona, considerandola inferiore e pertanto emarginata.

Le manifestazioni dell’handicap come fatto sociale comprendono almeno tre aspetti: organico, funzionale e socio-familiare. L’aspetto organico è rappresentato da una alterazione delle funzioni o della struttura del sistema nervoso; base necessaria di ogni handicap, anche se esistono disturbi neurologici (danni al SNC) che rimangono nascosti e non trovano nessuna espressione clinica. Il disturbo funzionale (o l’inabilità) riguarda alcune funzioni fisiche che possono essere ridotte a causa del disturbo neurologico, ma anche in seguito a ragioni psicologiche e sociali. A questo riguardo è bene precisare che l’inabilità non è sufficiente di per sé a definire una persona handicappata, in quanto una limitazione nella capacità di movimento della parte sinistra del corpo può consentire uno sviluppo e un inserimento sociale soddisfacente senza che la persona, per questo, sia considerata e si senta handicappata. (Un poliomielitico ad un arto superiore o inferiore, ad esempio, può essere inabile a determinate funzioni e mansioni, ma non per questo è da considerarsi handicappato nel senso più esteso del significato).
Perciò l’inabilità funzionale nell’handicap consiste soprattutto nel mancato o limitato sviluppo delle capacità intellettuali e di movimento (motricità), del coordinamento dei movimenti, e di funzioni sensoriali come la vista e l’udito. Mentre il rapporto fra queste componenti, definisce la condizione dell’handicappato. L’aspetto socio-familiare ha, in questo contesto, importanza fondamentale proprio per il notevole contributo che può dare ai fini dell’inserimento, integrazione e della condivisione dei sentimenti. In sostanza, può definirsi “handicappato” colui il quale, a causa di una riduzione delle proprie funzioni, incontra notevoli difficoltà nella propria conduzione di vita. E per quanto concerne “notevoli difficoltà”, non si intendono solo le difficoltà nelle funzioni fondamentali come il lavoro, l’abitare e le comunicazioni, ma anche il poter prendere parte alle informazioni, al piacere dell’arte e della cultura, al partecipare alle molteplici attività del tempo libero di cui si è interessati. E, in questo contesto, senza sostituirsi alle Istituzioni, il volontario può, a vario titolo, contribuire a stimolare e sostenere iniziative atte a favorire l’inserimento e l’integrazione della persona handicappata.

Può sembrare superfluo dare importanza all’aspetto della terminologia, ma l’uso del linguaggio ci insegna che una distorsione delle parole o una particolare enfasi possono creare o contribuire a creare indifferenze o sopraffazioni. La difficoltà di sentire, di capire, di vedere, di muoversi, proprie di tipologie distinte di lesioni che portano ad una difficoltà permanente, ovvero ad un handicap, rappresentano qualitativamente le stesse difficoltà di comunicazione, di emotività, di disagio, proprie di chiunque. La condizione di handicap, dunque, è qualcosa che si evidenzia fra l’individuo e la società circostante, proprio perché tale ambiente non è adatto alle necessità di tutti: è la società che dovrebbe adeguarsi all’individuo e non il contrario.

 

Ernesto Bodini

Giornalista scientifico – Biografo

1 thought on “1981 – 2011: a trent’anni dalla Dichiarazione (dell’Onu) dell’Anno Internazionale dell’Handicappato, la realtà del passato insegna?

  1. A commento….la ragione per cui vorrei con voi condividere questa ansa riportata di seguito ma pubblicata da (Reatech,). Che apre il suo articolo <> titolandolo:
    “…privatizzare la disabilità …”
    È perché ritengo che le parole usate durante il convegno tenuto <>: “un nuovo contributo per assicurarla”, implode tutta la mancanza profonda d’umanità del nostro attuale Ministro Elsa Fornero e perché in esse si esprima un’ulteriore violazione e violenza a danno dei disabili, ma pure perché quanto riportato nell’articolo dell’amico Ernesto Bodini, bene si contestualizza e risponde in parte alle più umane ragioni che aiutano a riflettere e legano chi soffre al mondo “ dei normali ” ragioni messe in risoluzione anche dall’ONU .
    Nella sua serena e razionale esposizione Ernesto ci aiuta a comprendere con un profondo senso di fratellanza, le ragioni crude e umane di che soffre e a diffidare di chi vorrebbe spacciare per altruismo o interesse migliore interesse generale l’ignorare il diritto del malato in favore di un risanamento del debito pubblico.

    Durante il convegno tenuto sull’Autonomia delle persone con disabilità: “un nuovo contributo per assicurarla”,
    “…privatizzare la disabilità …” si è detto
    “Non si può pensare che lo Stato sia in grado di fornire tutto in termini di trasferimenti e servizi’’. Lo ha dichiarato il Ministro del Lavoro Elsa Fornero durante il convegno Autonomia delle persone con disabilità: un nuovo contributo per assicurarla (Reatech, Milano, 25 maggio).
    Il Ministro ha poi aggiunto: “Sia il privato che lavora per il profitto sia il volontariato no profit sono necessari per superare i vincoli di risorse. Il privato, in più del pubblico, possiede anche la creatività per innovare e per creare prodotti che aiutino i disabili. La sinergia tra pubblico e privato va quindi rafforzata”.
    I prodotti di cui si parla sarebbero quelli assicurativi. Infatti la Fornero prosegue: “Per evitare accuse di raggiro o frodi, il ruolo pubblico dovrebbe dare credibilità inserendosi nella relazione tra la persona e il mondo assicurativo. C’è bisogno di innovazione finanziaria e creatività”.
    Parole che lasciano sconcertate le organizzazioni delle persone con disabilità, per la loro crudezza e per l’evocazione di una “cultura” che non si pensava potesse penetrare nel nostro Paese risalendo fino ai vertici di un Governo che si appella ad ogni piè sospinto all’equità.
    Con la prima affermazione la Fornero gela qualsiasi ipotesi e speranza di innovazione sociale, di garanzia dei diritti civili, di efficacia ed efficienza dei servizi sociali, di miglioramento delle prestazioni per i disabili gravissimi e per i non autosufficienti.
    Tradisce il retropensiero che gli stanziamenti per l’autonomia personale delle persone con disabilità siano una spesa morta, un sovraccarico insostenibile, un capriccio di pochi, e non già invece un investimento. Ricorda tragicamente alcune brutali dichiarazioni del Ministro Tremonti (“Come può un Paese con due milioni e mezzo di disabili essere davvero competitivo?”).
    “Lo Stato rinuncia ad attuare quanto previsto dall’articolo 38 della Carta costituzionale – annota Pietro Barbieri, presidente della Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap – e quanto sancito dalla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità. Getta la spugna invocando un intervento caritatevole (o interessato) dei privati. Un lesto e mesto ritorno alle opere pie… o a qualcosa di peggio”.
    Ma la seconda parte delle affermazioni del Ministro ha risvolti non meno inquietanti.
    Lo Stato, pur di liberarsi della spesa per la disabilità e la non autosufficienza, diventa procacciatore d’affari per le Assicurazioni e le eventuali risposte assistenziali sarebbero erogate in virtù di una polizza pagata in vita dai Cittadini.
    Una privatizzazione assicurativa del welfare che inizia dalle persone con disabilità per spingersi fin dove la “creatività” può consentire.
    A chi non giovi tutto ciò è presto detto: a chi non può permettersi di pagare una polizza assicurativa e a chi nasce con una grave menomazione o la contrae in tenera età.
    A chi giova invece questa prospettiva oltre che allo Stato? Sicuramente il giro d’affari per le Compagnie assicuratrici è notevolissimo e, in periodo di crisi, un vero toccasana. Nuovi introiti e nuove prospettive anche sul fronte immobiliare. Tradiscono l’attesa le stesse parole della Fornero: “Qualche volta le persone anziane si trovano intrappolate in una casa che costa troppo e hanno difficoltà ad ottenere aiuti”. Un patrimonio immobiliare che fa gola a molti.
    “Sono dinamiche e logiche che, ovviamente, non ci appartengono – conclude Barbieri – ma che rischiano di stritolare ogni prospettiva di reale inclusione sociale o di condizionarla al censo, al patrimonio, all’età più che ad un diritto costituzionale e, prima ancora, umano”.

    A conclusione mi viene d’aggiungere, bravo Ernesto !
    aurelio albanese

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