Dentro “Dentro” di Sandro Bonvissuto

di Marcella Onnis

«Mi presero le impronte delle dita. Dopo aver raccolto tutte le mie generalità e fatto le fotografie, mi presero anche le impronte delle dita delle mani. E ora stavano su un foglio, sopra il tavolo, proprio davanti a me; sembravano un segreto svelato, una cosa che, fino a poco prima, era intima e privata, e che invece d’ora in avanti tutti avrebbero potuto vedere. Senza dovermi chiedere niente.» Così comincia Dentro di Sandro Bonvissuto, romanzo pluripremiato e particolarmente amato dai detenuti: gettando immediatamente il lettore nella spirale angosciosa che lo travolgerà insieme al protagonista e mettendo l’accento su un gesto, la rilevazione delle impronte digitali, che a noi che stiamo “fuori” può sembrare una semplice, fastidiosa procedura ma che per chi la subisce è il primo stadio di quel progressivo “denudamento identitario” cui la vita in carcere spesso costringe.

Dentro/fuori: un contrasto forte che, però, si può ammorbidire se c’è la volontà di scoprire, di capire, di condividere. Proprio quello che ha invitato a fare, lo scorso 10 dicembre, il festival di letterature applicate Marina Cafè Noir. Per l’inaugurazione della sua undicesima edizione, eccezionalmente organizzata nel periodo invernale, il festival ha, infatti, proposto ben tre appuntamenti dedicati al romanzo di Bonvissuto e legati al progetto “Biblio-caffè ristretti”. Grazie a questa iniziativa di Marina Café Noir, realizzata in collaborazione con gli operatori di Buoncammino, per tre volte a settimana artisti e detenuti possono riunirsi nella biblioteca del carcere cagliaritano e confrontarsi sulle letture fatte e anche su propri scritti, ma soprattutto hanno la possibilità di “scambiare energie ed emozioni”, come hanno tenuto a precisare, durante il festival, gli stessi promotori del progetto.  Il reading “Libertà – Il Muro fuori”, portato in scena la sera del 10 dicembre 2013 a Cagliari nel teatro di Sant’Eulalia, ha dunque intrattenuto l’affollata platea non solo con letture tratte da Dentro ma anche con testimonianze raccolte grazie, appunto, al progetto “Biblio-caffè ristretti”. Sul palco – a dare voce a pensieri ed emozioni con il sottofondo musicale curato da Michele Bertoni – Sandro Bonvissuto, Checco Adamo, Dario Cosseddu, Carlo Birocchi e Victor Nwankwo. Questo terzo reading è stato incentrato sul “dentro” visto da dentro ma raccontato a chi sta fuori, nel tentativo di abbattere idealmente non solo le mura del carcere ma tutti i muri, mentali e materiali. Ogni muro, infatti, anche il più modesto e apparentemente innocuo, è – Bonvissuto insegna – un’entità perfetta, potente e ostile perché «costruire un muro è fare una cosa contro.»

Chi non ha provato l’esperienza del carcere non può certo concepire cosa significhi entrare a contatto con quello che, non solo secondo il protagonista del romanzo, «[…] è il punto più basso di un’esistenza. Un buco nero» Ma basta anche solo udire il suono delle serrature che scattano, delle chiavi che tintinnano –  riprodotto pure in uno dei video proiettati durante il reading – per sentirsi invadere da un senso di angoscia. «Fra questi rumori – racconta il protagonista di Dentroce n’era uno che mi faceva sobbalzare dal letto: era il tintinnare del mazzo di chiavi delle celle che le guardie di sezione portavano sempre con sé. Lo sentivo sin dal fondo del ballatoio. Lo avrei distinto anche se laggiù fosse stata in corso una rivolta di detenuti con morti e feriti. Lo avrei sentito anche la notte di Capodanno.» Quasi solo questi suoni a rompere l’innaturale quiete racchiusa tra quelle «[…] pareti più avvezze a sentire il silenzio che il rumore». Solo questi suoni in grado di far muovere alcuni bimbi nati e/o cresciuti in carcere, ha denunciato di recente Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, accrescendo l’orrore che questo dramma – raccontato con sensibilità ed efficacia da Rosella Postorino nel suo romanzo Il corpo docile – già di per sé ingenera.

Il “no” alle ingiustizie non può venire solo da chi, direttamente o indirettamente, le ha subite: deve farsene carico anche chi non ne è toccato. È questo uno degli effetti che l’autore di Dentro ha cercato di ottenere: al protagonista del suo romanzo non ha volutamente dato un nome né attribuito un reato specifico perché nessuno, leggendo la sua storia, potesse «pensare “questa cosa è successa a lui, non può succedere a me”.» Il suo è stato «un tentativo di parlare di tutti, di tanti, di molti», non solo attraverso le parole e i pensieri del protagonista ma anche di altri personaggi, tutti – ha aggiunto – «riconducibili ad una verità». Come le storie raccolte ne La cella di Gaudì, anche questa ci ricorda che noi “buoni” non possiamo considerare la vita in carcere una questione estranea, che noi “buoni” non dovremmo avere la presunzione che non diventeremo – o saremo  considerati – mai “cattivi”. Non solo: queste storie ci esortano a non permettere che un altro essere umano si senta o sia considerato come le arance amare che «Non servono a niente. Eppure esistono.»

Certo, in ballo ci sono colpe, responsabilità e – non dimentichiamolo – vittime, per cui devono anche esserci giuste punizioni. Tuttavia, bisogna tenere presente che quel «[…] meno della metà delle persone custodite lì dentro avevano avuto una condanna definitiva» non vale solo per questo immaginario carcere e che, in ogni caso, l’equità della sanzione deve essere valutata tenendo conto di quello che è il suo peso reale per chi la subisce. Non possiamo dimenticare, infatti, che alla privazione della libertà fisica si aggiunge sempre la riduzione della libertà affettiva e intellettuale. «[…] mi straziava il pensiero di tutte le cose che avrei dovuto fare l’indomani» racconta il protagonista del romanzo, ripensando al momento in cui è stato condotto in carcere, ed è lo stesso pensiero emerso anche in una delle testimonianze presentate durante il reading. È vero, si tratta di persone che hanno commesso degli errori… ma quanti di noi, quando si macchiano di una colpa, sperano di farla franca e nel momento in cui viene scoperta e ne subiscono le conseguenze, seppure molto meno drammatiche, si sentono crollare il mondo addosso, tremano al pensiero che il comodo corso della loro vita subirà un indesiderato e peggiorativo mutamento?

Non si può poi scordare che il carcere è una sofferenza per coloro che stanno dentro ma anche per coloro che stanno fuori ad aspettarli, famiglie innanzitutto ma anche, per esempio, gli amici a quattro zampe. Animali sì, ma – come emerso da una delle testimonianze raccontate da Carlo Birocchi durante il reading e come emerge anche nel romanzo di Bonvissuto – capaci di percepire l’assenza degli amati padroni e di soffrirne al punto da lasciarsi morire.

Il carcere non assicura la proporzionalità della pena alla colpa anche perché, per come è organizzato,  è un sistema che annienta tutto, a partire dallo spazio fisico («Quel posto non presentava nessuna delle cose esistenti nell’universo. Non avevano tolto tutto fino a non lasciare più niente, lì avevano tolto tutto e poi ci avevano messo il nulla. Col nulla ci avevano rivestito il pavimento. Ci avevano impastato il cemento delle mura. Ci avevano verniciato le pareti. Ed è difficile accettare la manifestazione massiccia del nulla.») per arrivare allo spazio mentale, identità compresa («[…] in carcere te lo devono dire quando si parla di te, non sempre te ne rendi conto. Senti chiamare il tuo nome e non lo riconosci nemmeno più.»). È un nulla che anestetizza i sensi e l’anima al punto che «[…] in quel mondo senza più passione, l’unica emozione» che è ancora possibile provare può diventare togliersi la vita.  Il carcere, come lo conosciamo oggi, può offrire solo una pena distruttiva e certamente non rieducativa, anche e soprattutto perché non è personalizzata, come ci ha spiegato Michela Capone, giudice e scrittrice, nell’intervista che ci ha rilasciato circa un anno fa e come emerge anche in queste pagine: «[…] in carcere è come se dessero la stessa medicina a tutti i malati, anche se affetti da malattie diverse. La stessa cura per tutti. C’è molta più fantasia nel crimine che nella pena.»; «Una delle cose più assurde che succede a chi sta in carcere è che il detenuto comincia pian piano ad assomigliare al suo reato. […] Forse questo accade per via del fatto che in carcere si parla solo con avvocati, magistrati e guardie penitenziarie , cioè solo con gente che parla della tua colpa. Così lei diventa più importante di te. Ti sovrasta. Ti domina. Attirare consenso e favore, o disprezzo, o viceversa rispetto. E alla fine tu non conti più niente , conta solo lei. Ne sei solo il portatore. E la servi come uno schiavo fa con il suo padrone. […] Il reato è un parassita dell’uomo che lo porta sulle spalle. […] i tribunali che mandano in carcere le persone in fondo giudicano gli atti socialmente dannosi commessi dalle persone, non le persone.»

La funzione rieducativa diventa poi del tutto assente quando la pena è l’ergastolo ostativo, quel terribile “fine pena mai” che non esiste solo sulla carta – occorre ancora ricordarlo – e che forse costituisce l’unica entità in grado di uccidere la speranza. Con il suo romanzo, Bonvissuto invita una volta di più a ripensare il sistema penale, a renderlo più umano ma anche più coerente.

Ma se il “dentro” fa paura, anche il “fuori dopo” non è sempre un ritorno al paradiso e alla felicità. Per alcuni lo è, come è emerso dalle testimonianze raccolte da ” Biblio-caffè ristretti” e che raccontano, ad esempio, di come, una volta usciti dal carcere, persino l’acqua che ti infradicia possa essere motivo di gioia. Per altri, però, l’esperienza non è positiva: il “mondo fuori” può fare paura a chi si è disabituato alla libertà e alla “vita normale”, così paura da desiderare di tornare dentro. Inquietanti in proposito le parole con cui il personaggio di zio Mario, che sostiene che «La vita è una cosa complicata: quando scendi dalla giostra, poi non ci risali più», ammonisce il protagonista di Dentro: «[…] quando esci, hai paura di perdere nuovamente la partita, hai paura di quello che c’è fuori. […] è il momento più difficile. Ti salvi solo se c’è qualcuno che ti aspetta lì fuori, qualcuno che ti vuole bene. Se ce l’hai, puoi andare, sennò puoi anche rimanere qui. Perché, se fuori sarai da solo, è qui che tornerai.» E altrettanto allarmante è sentire un detenuto raccontare, per interposta persona, di aver scoperto sulla sua pelle quanto sia vero ciò che gli disse un giorno una guardia carceraria mentre da fuori salutava gli amici rimasti in prigione: “Stai attento, che questo posto è come una calamita.”

Sebbene il tema della detenzione, trattato nella prima parte del romanzo sia quello più pregnante e discusso, sarebbe tuttavia sbagliato e riduttivo fermarsi a questo e perdere di vista gli altri importanti temi sviscerati nella seconda e nella terza parte: l’infanzia, l’adolescenza e la paternità o, meglio, il rapporto padre-figlio. Volendo azzardare un paragone, questo “trittico letterario” ricorda un po’, in versione maschile, Le tre età della donna di Gustav Klimt in cui il pittore rappresenta le tre “tappe chiave” della vita di una donna: l’infanzia, la maternità e la vecchiaia. In entrambi i casi, infatti, in un’unica opera sono racchiusi tre ritratti ben distinguibili ma fortemente legati tra loro per stile e contenuto. La differenza più evidente tra le due opere sta nel fatto che nel romanzo il cammino viene percorso a ritroso: il lettore conosce il protagonista già adulto poi lo vede tornare ragazzo e, infine, bambino. La sensazione, a primo impatto, è quella di avere davanti tre micro romanzi autosufficienti e forse troppo indipendenti tra loro, ma verso la fine della terza e ultima parte c’è un passaggio che ben si presta a fare da anello di congiunzione con la chiusura della prima parte: «Lui non mi aveva mai guardato in quel modo; ero avvolto nello sguardo del padre, che vale tanto quanto l’abbraccio materno, Quello sguardo che ti avvolge come l’acqua, e si posa anche sulle cose che ti stanno intorno bonificando le zone dai pericoli. Spostando di peso i massi. Come se un tuo Dio personale ti vedesse e ti proteggesse. Un Dio che però esiste.» Chi ha letto il libro con molta probabilità vedrà in quest’abbraccio tra padre e figlio la cosiddetta chiusura del cerchio.

In linea con la scelta di lasciare nell’anonimato e nell’indefinitezza il protagonista, pure la ricostruzione del suo passato è lacunosa. In ogni caso, i frammenti di vita narrati, soprattutto quelli dell’adolescenza, bastano per intuire il nascere e il crescere di un disagio che lo porterà a commettere errori che gli costeranno caro. E durante questo viaggio a ritroso il lettore si renderà pure conto di star apprendendo molto sul passato, presente e futuro di ogni uomo perché in questo libro si parla molto di rapporti umani, delle loro molteplici e imprevedibili dinamiche.

A fare da filtro, però, è sempre il punto di vista del protagonista e dominante è sempre il suo mondo interiore. E lo stile si plasma proprio sui “movimenti” di questo mondo interiore, spesso indotti dagli eventi esterni. «È una scrittura del pensiero, del pensare. Ha i periodi del pensare. L’ho scritto come l’avrei voluto leggere.» ha spiegato Bonvissuto al pubblico cagliaritano. E a questo pensiero che si fa scrittura non possiamo che rispondere con una lettura che si fa pensiero, riflessione.

 

 

Foto di Silvia Onnis

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