Dalla morte alla vita. Per non dimenticare Roberto Cuboni

Giampiero Maccioni e i familiari del suo donatore

Riceviamo e pubblichiamo:

Giampiero Maccioni e i familiari del suo donatoreRoberto vive!

In questo giorno ringrazio la Divina Provvidenza per aver riservato alla mia povera persona, dopo tanta sofferenza, una rinascita a vita nuova, grazie all’amore ed alla solidarietà di una famiglia che, dalla tragica morte di un giovane congiunto, aveva deciso di donare i suoi organi salvando dalla morte quanti, come me, riversavano in condizioni disperate.

Fu così che il sabato 26 ottobre alle ore 11.40, mentre disteso sulla mia solita poltrona aspettavo con ansia le novità per la vita, squillò il telefono e mia moglie, con molta compostezza, ascoltò la voce di un medico che le comunicava la tanto attesa notizia: «Signora, è arrivato l’organo per suo marito, preparatevi con calma e recatevi subito in ospedale».

Mia moglie mi comunicò con grande gioia, ma con altrettanta

calma, la notizia e si preoccupò di informare le figlie e prendere la valigia già pronta per quell’evenienza.

La mia gioia non si trasformò però in agitazione e, come nel precedente grave episodio, affrontai la situazione con molta lucidità e freddezza.

Decisi subito che sarei andato con la mia macchina e alla guida ci sarebbe stata la mia figlia più giovane. Non chiesi nessun aiuto alle forze dell’ordine ed in poco tempo ci avviammo verso l’ospedale: io e Domitilla davanti, mia moglie dietro, muniti di un fazzoletto bianco da sventolare assieme al suono del clacson per segnalare l’urgenza.

Seguivo con molta attenzione la guida sicura di mia figlia e provvedevo ad ammonirla per mantenere la calma e non forzare i blocchi dei semafori rossi ma attendere che le auto lasciassero il passaggio alla nostra improvvisata ambulanza familiare. Al semaforo rosso di Elmas, con una coda di decine di auto, le auto che ci precedevano, come per incanto, si spostarono lasciando un varco per la nostra auto che proseguì la corsa verso la speranza della mia rinascita.

Dopo una decina di minuti intravidi, come un’oasi nel deserto, il pallido, arido colle di San Michele e ai suoi piedi il monolitico edificio grigio-cemento dell’ospedale Brotzu. Mai tale abituale e visitata immagine, dominata dall’arido sfondo del colle alla cui base si ergevano questi sembianti carcerari, “grigi bracci di cemento”, aveva prodotto in me sensazioni indescrivibili di pacata, profonda e rassicurante serenità interiore: stavo vivendo una sorta di esodo metropolitano verso la terra promessa per la rinascita a vita nuova. E tutto ciò era cosa buona, nel divino e misterioso disegno Assorto in quella sorta di estatica visione, varcai l’ingresso della clinica e raggiunsi il quarto piano, dopo circa un’ora dalla chiamata telefonica delle 11.40 e dopo undici

mesi di lista d’attesa.

Cominciarono subito le operazioni preparatorie al tavolo operatorio del trapianto; ad iniziare dalla depilazione totale del mio irsuto corpo, per finire nella pre-anestesia.

Quelle tre ore di preparazione trascorsero velocemente senza

traumi in preda a un’indicibile calma e serenità: debbo confessare

che, contrariamente al passato trascorso nell’attesa, non provai nessun sentimento di paura. Molto di questo, posso dire oggi, si doveva in buona parte alla presenza accogliente, discreta e profondamente umana di Alessandro Ricchi, il compianto cardiochirurgo che mi avrebbe cambiato la vita fisica e anche tanto, tanto altro, che porto dentro di me e che riscontro, in modo ancora più evidente, in mia moglie e nelle mie figlie.

 

Il dado è tratto!

L’anestesia cominciò a fare il suo primo effetto con una certa sonnolenza. Nudo come quando sono uscito dal seno di mia madre, ricoperto da un lenzuolo, venni adagiato sulla lettiga che mi avrebbe portato nella “sala travaglio” per affrontare il nuovo parto della mia seconda nascita.

Dopo aver abbracciato mia moglie Rosella e le mie figlie, mi congedai da loro con un inusitato ed inspiegabile saluto, in limba: “Forza paris!”, un invito all’unità solidale della famiglia.

In effetti, riemergeva con forza il sacramentale giuramento sponsale pronunciato trent’anni prima, mantenuto saldo e inalterato e sostenuto dalla profondità del nostro prezioso dono della fede in Cristo.

Il mio carissimo dottor Ricchi intanto abbracciò mia moglie, incoraggiandola e sostenendola con il suo sguardo e le sue parole. Senza nascondere niente, ma con realismo e umana saggezza, verbalizzava – tutto questo naturalmente l’ho conosciuto a posteriori – le difficoltà e gli imprevisti correlati alla complessità dell’intervento chirurgico.

Tra le tante cose dette, una in particolare aveva colpito, ma non scoraggiato mia moglie: “Adesso tutto è pronto per il trapianto, ma la riuscita dell’intervento comincia dal momento in cui metterò le mani sul cuore nuovo per essere certo di poterlo inserire nel petto di suo marito”.

Quel colloquio e quello sguardo resteranno stampati nel cuore e nell’anima della mia consorte e, ancora oggi sono vivi e palpitanti quando ricordiamo insieme la triste e meravigliosa avventura della nostra comune esistenza.

Il corteo di medici che circondava il letto mobile su cui giaceva il mio corpo, ormai quasi privo di conoscenza, raggiunse l’ascensore ed entrò nella sala operatoria mentre io, con il tremolio del freddo anestetico, precipitai nel buio profondo, per risvegliarmi il giorno successivo: domenica mattina 27 ottobre 2006, il Giorno del Signore della XXX Domenica del tempo ordinario,

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mentre il quotidiano “L’Unione Sarda”, nella pagina di cronaca della provincia di Nuoro, annunciava la sepoltura del giovane donatore e l’incommensurabile dono dei suoi organi:

 

Ultimo regalo di Roberto: organi donati

 

LANUSEI È morto ieri mattina alle 9,30 nell’ospedale Brotzu di

Cagliari Roberto Cuboni, il giovane di Lanusei (20 anni) che venerdì pomeriggio si era schiantato contro un muro mentre percorreva la via Umberto sulla sua moto. Per la velocità elevata, il ragazzo aveva perso il controllo della “Suzuki” in prossimità di

una curva finendo fuori strada. Sprovvisto di casco, aveva battuto

violentemente la testa rimanendo travolto dalla moto.

I soccorsi – dopo alcuni passanti sono intervenuti i vigili del fuoco, la polizia stradale e l’ambulanza ospedaliera – sono stati immediati. Trasportato al pronto soccorso già in coma, Roberto Cuboni è stato visitato dai medici che, viste le sue condizioni, ne hanno disposto l’immediato trasferimento a Cagliari, dove gli specialisti della neurochirurgia non hanno potuto far nulla per salvarlo. A Roberto Cuboni sono state fatali le gravissime lesioni al capo e all’addome.

I familiari hanno autorizzato l’espianto degli organi. I funerali oggi.

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Il diario di quelle interminabili lunghe ore di passione l’appresi da mia moglie, dalle mie figlie e dai generi: sono rimasti dalle 16.00 del sabato fino alle 21.00, per l’intervento, e fino al risveglio delle 7.00 dell’indomani mattina in attesa spasmodica, in piedi, nell’andito di fronte all’ingresso della porta gialla della terapia intensiva.

La fortuna volle che un medico amico, autorizzato ad entrare in sala operatoria, esercitasse nei confronti dei parenti la preziosa, deterrente e psicoterapeutica attività di “cronista” dell’evento, informandoli periodicamente dell’andamento dell’intervento, fino alla comparsa dell’agognata figura, esausta ma rassicurante, del dottor Ricchi che annunciava il risultato positivo del trapianto e del normale decorso post-operatorio. Ma i miei due generi avevano avuto una preventiva e furtiva anticipazione perché, appostandosi nei pressi dell’ascensore del quinto piano (blocco operatorio della clinica), avevano assistito da lontano al corteo dei medici, dall’aria stanca ma soddisfatta, mentre riportavano la lettiga con il mio corpo – circondato da una miriade di cavi elettrici e strumentazioni varie – alla sala di terapia intensiva del quarto piano del reparto di cardiochirurgia.

In particolare la cronaca aveva già registrato che, intorno alle 20.00, il mio vecchio e malato cuore era stato prelevato ed al suo posto era stato “posizionato” (nel linguaggio professionale del cronista) il nuovo organo, mentre proseguivano le operazioni successive fino al momento fatidico – che fa tremare i polsi ai sanitari impegnati nell’intervento – della partenza del nuovo cuore con una stimolazione elettrica.

Operazione decisiva che talvolta, in casi rarissimi, può, dopo anche varie stimolazioni, non riuscire. Nel mio caso il nuovo motore partì al primo colpo con la gioia e l’esultanza dei presenti, tranne ovviamente la mia, perché giacevo privo di coscienza, ma finalmente rinato a vita nuova.

La spasmodica e lacerante attesa dei miei parenti di vedermi, ed in particolare di mia moglie, fu soddisfatta subito dopo: il mio genero Riccardo che, con la scusa di dover partire per Roma l’indomani, accompagnò Rosella sostenendola, in tutti i sensi, durante quell’incontro tanto atteso, ma con una serie di possibili reazioni emotive, gioiose da una parte e penose dall’altra, per la visione inusitata del marito: intubato, cosparso di fili e circondato da numerose strumentazioni.

Rosella però superò molto bene lo choc e rimase benevolmente

impressionata alla visione delle mie labbra, con occhio sponsale percepiva il contrasto tra il colore roseo e quello ceruleo dei mesi pregressi: un primo piccolo, ma rasserenante segno esteriore, nel primo entrar nella grande camera della terapia intensiva.

Non avrebbe mai più voluto distogliere lo sguardo, sarebbe voluta restare vicino, e ascoltare il respiro vitale come aveva fatto per tanti lunghissimi mesi, insonne, sul guanciale del letto nuziale, amorosa e protettiva guardia, custode e indiscreta amante del mio esile corpo che si andava spegnendo per effetto della grave eredità paterna. Invitata a lasciare la camera e rientrata nell’andito, nei pressi della fatidica porta della terapia intensiva, fu raggiunta dalla “sarda e austera dottoressa Falchi” che, con il suo solito, chiaro e conciso parlare, la invitò a rientrare a Iglesias: «Suo marito sta bene e siamo noi che ci prenderemo cura di lui».

Quelle parole, quel burbero benefico colloquio, anche se difficile da condividere in quel frangente, la convinsero comunque dell’opportunità di lasciare l’ospedale che, in verità, non offriva nessuna accoglienza logistica di soggiorno.

L’accompagnarono mie figlie e i due generi e, dopo una quarantina di minuti, raggiunse la casa vuota. La persona più

“tranquilla” ero proprio io, supino ed incosciente, circondato

dalle amorevoli cure degli operatori sanitari: monitorato

e controllato a vista dalle guardie del corpo.

La prima ripresa di coscienza mi dissero che avvenne dopo circa quindici ore dagli effetti dell’anestesia, intorno alle 7.00 di domenica 27 ottobre 1996: la voce calda di un uomo mi sussurrò all’orecchio: “È andato tutto bene”. Ho motivo di ritenere che fosse la voce del primario anestesista, il dottor Pettinao, al quale, ormai, mi lega una fraterna amicizia e collaborazione alla causa comune della donazione e del trapianto degli organi. La ripresa di conoscenza fu lenta e progressiva, lasciando impresse immagini e fatti, talvolta labili e confusi. I ricordi costellati di suoni, di odori, di immagini di sensazioni fisiche presero corpo e sostanza nelle

quarantotto ore successive alla prima percezione di ripresa di

conoscenza.

Quello più impresso nella mente, dopo le parole iniziali del primo risveglio, è stato sicuramente il rumore continuo del respiratore artificiale e la campana che suonava per avvisarmi, assieme alle parole di un’operatrice sanitaria che mi incoraggiava dicendomi che dovevo cominciare a respirare con i miei polmoni: «Adesso cominci a respirare da solo… poi … din… din… din, respiri, signor Maccioni, su respiri… bravo, bene, così…». Questo fu l’esercizio e queste le voci, fino alla completa autonomia respiratoria.

 

GRAZIE ROBERTO PER IL TUO DONO!

In questo 18° anniversario della tua morte

E così rinascevo a VITA NUOVA grazie al dono incommensurabile del giovane cuore di Roberto ed al gesto di solidarietà della sua famiglia che ho scoperto dopo otto anni da questa meravigliosa avventura. Adesso la mia famiglia è diventata più numerosa si è “allargata”

 

Giampiero Maccioni

Iglesias 26 Ottobre 2014

18°anniversario della mia rinascita con un trapianto di cuore

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