Cultura dell’handicap: ancora qualche riflessione

È ancora considerevole il “ritardo” nel far fronte alle esigenze di una popolazione sempre più aggravata da patologie, spesso gravi e invalidanti. Barriere architettoniche e legislative tendono a confinare nel limbo chi non è “al pari” degli altri; ma sono le barriere psicologiche e culturali quelle più significative che, se superate, contribuiscono alla crescita civile nel rispetto della dignità umana.
di Ernesto Bodini
(giornalista scientifico)
Sono passati trentacinque anni da quando l’Assemblea dell’ONU, con la Risoluzione del 30/1/1980, ha proclamato il 1981 “Anno internazionale dell’Handicappato”. Una ricorrenza dalle precise finalità per evidenziare le problematiche che coinvolgono tutte le persone che soffrono di una patologia più o meno cronica e invalidante; ma anche per ricordare i loro diritti alla partecipazione, all’uguaglianza e al rispetto della dignità tenendo presente le molteplici cause che hanno determinato le disabilità fisiche e/o psico-fisiche, come pure i fattori socio-economici e culturali, per non parlare poi dei caregiver per l’assistenza ai casi più gravi. Obiettivi che, a distanza di sette lustri, non sono ancora stati del tutto raggiunti considerando che la popolazione disabile è aumentata: in Italia sono quasi 3 milioni, in Europa il 10-15% (circa 50 milioni), nel mondo 650 milioni (circa il 10% dell’intera popolazione). Tutte persone che richiedono notevoli interventi di sostegno medico, assistenziale ed economico, con particolare attenzione per i soggetti affetti da malattie rare (secondo le ultime statistiche quelle codificate sono 5-6 mila).
Ma la “realtà” handicap (io credo) è soprattutto un fatto culturale che, per la verità, ancora oggi stenta ad essere recepito come tale. La condizione di queste persone (soprattutto se con deficit psichico o psico-fisico grave) è quella del “non desiderato”, che diventa quasi sempre un capro espiatorio dell’aggressività del gruppo sociale, con un ruolo socialmente svalutato, tale da renderle vittime dell’emarginazione… È la società che, in una certa misura, determina e definisce l’handicappato (nel senso più esteso del significato), ad esempio, nell’ambito della scuola, del lavoro e più estensivamente in tutti gli spazi dove esistono barriere fisiche e psicologiche da superare.
Il disabile, proprio perché di un’ “altra specie”, costituisce sempre un caso a sé, unico e non standardizzabile. Questo concetto è essenziale perché la mancanza di rispetto per qualunque realtà individuabile, condurrà sempre a violenza ed emarginazione. Questa situazione, particolarmente pesante e difficile, è aggravata dalla cosiddetta “cultura dominante del bello esteriore” e della produttività ad ogni costo. Una nuova mitologia che crea continuamente nuovi soggetti handicappati: una persona che non rientra nei canoni estetici di bellezza ed efficienza, in qualunque contesto sociale, viene emarginata. La condizione di handicap, quindi di svantaggio, è qualcosa che si evidenzia fra l’individuo e la società circostante, e proprio perché tale ambiente non è adatto alle necessità di tutti, è la società che dovrebbe adeguarsi e non il contrario… Tutto ciò implica il non meno importante aspetto morale in quanto è nella scelta che si decide di fare degli altri, di tutti gli altri uomini. Non si tratta di fare riferimento a una inesistente eguaglianza di fatto, bensì di volere considerare una persona come eguale soprattutto in dignità, quali che siano i suoi limiti fisici o psichici. Senza questa responsabile decisione, il problema degli handicappati non può essere nemmeno sentito come problema reale: resta per i più un fastidioso disagio che riguarda una minoranza.
Il sapere ciò che oggi la scienza e la tecnologia ci mettono a disposizione rende possibili interventi, un tempo irrealizzabili, per limitare o evitare il sorgere di invalidità fisiche, psichiche o sensoriali che causerebbero in seguito penose sofferenze ed eventualmente emarginazione dei disabili, come pure dispendi onerosi per la società che deve reintegrarli. È opinione comune che la prevenzione di un qualsiasi deficit fisico, psichico o sensoriale sia sinonimo di scelta vantaggiosa rispetto al recupero dell’handicappato, senza per questo trascurare chi già è colpito da una menomazione. Ma per prevenire è necessario conoscere a fondo le cause di ciò che si vuole evitare. Questo sapere, purtroppo di pochi, a parte gli “addetti ai lavori”, è già da tempo parte integrante della scienza, ma è indispensabile che anche i non specialisti e l’opinione pubblica siano informati, affidandosi a chi ha la competenza, e possibilmente la predisposizione, per insegnare a trasmettere i princìpi elementari dell’umana solidarietà. L’handicap può essere superato se la società attraverso l’apporto delle tecnologie e dell’organizzazione sociale riesce ad integrare la persona con disabilità nel normale circuito sociale, facendo leva sulle potenzialità e le capacità della stessa. E poiché la qualità della vita passa anche attraverso la qualità del diritto (ove è prevista giustizia equa per tutta la comunità, il diritto stabilisce garanzie per ciascun cittadino), a maggior ragione chi soffre il disagio dell’handicap necessita di una particolare tutela che ne impedisce l’emarginazione, garantita dalla certezza di regole che stabiliscono il principio di parità sociale.
SOSTEGNO ALLE FAMIGLIE PER IL “DOPO DI NOI”
Restando sulle proiezioni in ambito nazionale, circa il 15% delle famiglie italiane è direttamente interessato al problema della disabilità. Per il disabile grave, come per ogni altra persona con problemi di salute, la vita con i genitori può risultare efficace e più completa la soluzione dei bisogni assistenziali; ma molte di queste famiglie hanno spesso bisogno di concreti sostegni, soprattutto quando i genitori dei disabili invecchiano o a loro volta si ammalano. Il problema che più li preoccupa è l’incertezza del “dopo”: dopo la nascita di un bambino disabile, dopo un trattamento riabilitativo, dopo la scuola, dopo la formazione, dopo la morte dei genitori… In queste famiglie, per non poter avere una certa sicurezza relativa alle varie tappe esistenziali che il proprio figlio dovrà affrontare, si fa strada un senso di sfiducia nei confronti dei servizi ma anche di viva preoccupazione. Si rende quindi utile attivare appropriati programmi di integrazione, per garantire la presa in carico e per giungere ad individuare e mettere in atto politiche a sostegno della famiglia e del “dopo di noi”.
A mio modesto parere si potrebbe rivedere i programmi d’intervento precoce verso il bambino disabile e a sostegno della famiglia; creare o incrementare opportunità dirette e indirette per potenziare le risorse e il loro utilizzo per favorire l’adattamento positivo della persona handicappata; semplificare le procedure di accertamento dell’invalidità civile; avviare il riordino delle provvidenze economiche necessarie secondo determinati principi.
Per quanto riguarda la residenzialità sarebbe altrettanto opportuno rivedere la programmazione relativa ad opportunità per una vita extra familiare, anche come bisogno esistenziale del disabile, mantenendo un sistema di autonomia con i suoi stessi genitori. Potrebbero essere utili interventi come la destinazione del 2% di alloggi residenziali ai disabili e dell’1% ai servizi sociali degli Enti Locali, alle strutture di riabilitazione, alle RSA (Residenze Sanitarie Assistenziali); la definizione delle strutture di rilevanza sanitaria e sociale; l’istituzione di almeno una RSA (di 20 o più posti) o Comunità (residenza protetta) ogni 40-50 mila abitanti, realizzazione di progetti di residenzialità programmata a carattere socio-assistenzale ed educativo…
Ulteriori programmi da verificare riguardano il problema della mobilità, ovvero luoghi e mezzi senza barriere (in Piemonte ve ne sono ancora molte da rimuovere sia in ambito pubblico che privato), affinché la persona disabile possa muoversi agevolmente e con maggiore autonomia possibile. Particolari suggerimenti riguardano inoltre la “rivisitazione” del trasporto pubblico e privato agevolato; ed ampi interventi dovrebbero riguardare anche la realizzazione di maggiori opportunità nell’accesso allo sport, alle attività culturali, ludiche e al turismo.
Le problematiche sin qui esposte non sono che una parte delle esigenze relative ai diritti delle persone che vivono in condizioni di maggior disagio e, per non dilungarmi oltre, mi riservo di sottoporre all’attenzione di chi è politicamente (e responsabilmente) preposto altre problematiche di non minore importanza ed “urgenza” per facilitare la vita quotidiana dei diversamente abili e, in taluni casi, anche dei loro caregiver.
STRATEGIA EUROPEA SULLA DISABILITÁ PER IL 2010-2020
La nuova strategia in ambito europeo è mirata a migliorare l’inserimento sociale, il benessere e il pieno esercizio dei diritti delle persone disabili, la quale prevede un’azione complementare a livello europeo e nazionale. L’atto della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle Regioni del 15/11/2010 porta il titolo di “Strategia europea sulla disabilità 2010-2020: un rinnovato impegno per un’Europa senza barriere”. La strategia si basa sulla attuazione concreta della Convenzione dell’Onu sui diritti delle persone disabili; inoltre, la stessa rientra nell’ambito della strategia Europa 2020 e si fonda sulle disposizioni della Carta europea dei diritti fondamentali e del Trattato di Lisbona. In particolare i “provvedimenti strategici” riguardano l’accessibilità ai beni, ai servizi e ai dispositivi di assistenza; un miglior accesso ai trasporti, alle strutture, alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione; la partecipazione, ossia le persone disabili devono poter esercitare i loro diritti per i quali la strategia deve contribuire a facilitare la loro mobilità, garantire la qualità dell’assistenza ospedaliera e dell’accoglienza in residenze specializzate; l’uguaglianza, l’attuazione di politiche attive con la piena applicazione della legislazione europea in materia di lotta contro le discriminazioni delle disabilità, in particolare nell’ambito della occupazione lavorativa. L’occupazione, favorire un aumento del numero dei lavoratori disabili sul mercato del lavoro aperto; l’istruzione e la formazione, ossia gli studenti disabili devono poter disporre di un sistema accessibile a programmi di istruzione permanente; la protezione sociale, i cui sistemi attuativi possono compensare le disparità di reddito, i rischi di povertà ed esclusione sociale ai quali sono esposti i disabili, attuando sistemi di protezione sociale che comprendano i sistemi pensionistici, e i programmi di alloggio sociale e l’accesso ai servizi di base; la salute, ovvero, le persone con disabilità devono disporre di un accesso equo ai servizi e alle strutture sanitarie, compresi i centri di salute mentale, con particolare attenzione alla salute e alla sicurezza dei lavoratori disabili. Per questo programma strategico la UE si impegna a promuovere i diritti delle persone disabili a livello internazionale, agendo soprattutto nell’ambito della politica di allargamento, di vicinato e di aiuti allo sviluppo. La strategia, secondo l’intento, si fonda quindi sull’impegno comune delle Istituzioni della UE e degli Stati Membri volto a sensibilizzare la società, sviluppare le possibilità di finanziamento europeo, migliorare la raccolta e il trattamento dei dati statistici, assicurare il monitoraggio dell’attuazione della convezione delle Nazioni Unite negli Stati membri all’interno delle Istituzioni europee.