Continua la guerra “calcistica”

In quest’ultimo periodo il calcio internazionale ci ha fatto vivere dei momenti a dir poco terribili e vergognosi. L’ultimo evento che riguarda l’aggressione avvenuta in occasione della partita Italia-Serbia ne è l’emblema. Qualche tempo fa un nostro lettore ci aveva scritto di come i tifosi possano essere una “razza” particolarmente portata alla “guerra”. Una guerra   che loro si creano mentalmente durante un incontro calcistico.

“Le partite sono scontri di nazionalismi, religioni, governi, regimi che si odiano, colluttazioni interetniche, interrazziali, interclassi sociali. Si vuole sempre vincere per qualcosa: altrimenti, perché voler vincere?”. Questo era quello che ci aveva scritto Tonino Greco qualche tempo fa e adesso non posso altro che dargli ragione. La guerra è davvero scoppiata, ci sono feriti, morti, gente che urla, che si dispera. Ma tutto questo per che cosa? Per 11 giocatori da una parte e altri 11 dall’altra che dovrebbero rappresentare la nazione o la città dei tifosi. Lo sport ha delle caratteristiche positive, la competizione è positiva, ma far diventare uno sport un evento bellico è assolutamente improponibile. Dobbiamo ricordare che i calciatori vengono pagati profumatamente nonostante la crisi economica che sta investendo l’Europa e tanti altri paesi del mondo. Permettiamo allo Stato di retribuire questi professionisti dello sport con degli stipendi assurdi e in più siamo pronti a far guerra agli altri pur di difenderli. Sarà forse colpa del patriottismo? Dell’idea di famiglia e del difenderla a spada tratta? Ma forse non si è capito che la famiglia da difendere è quella che trovi quando arrivi la sera a casa, alla fine di una giornata lavorativa: la famiglia che non potrà avere sussidi o la stessa istruzione che hanno avuto le famiglie del passato e che vive in un mondo dove calciatori, parlamentari e veline primeggiano e festeggiano non lasciando nemmeno le briciole alla gente comune.

Giusy Chiello

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