Sulla poesia di Patrizia Cavalli

Cavalli
Alcuni decenni fa Patrizia Cavalli scriveva una raccolta intitolata “Le mie poesie non cambieranno il mondo”. E il titolo la diceva lunga sulla cosiddetta marginalità e sull’incisività scarsissima o addirittura nulla della poesia italiana contemporanea. Ai tempi di quella raccolta poetica della Cavalli molti giovani credevano alla rivoluzione o quantomeno all’impegno politico. La poesia era vista come disimpegno, evasione, rifugio nell’ozio o almeno nell’interiorità. La poesia non poteva incidere nella realtà e quindi era considerata inutile. Ai tempi della Cavalli bisognava far gruppo, bisognava far parte del movimento politico giovanile. Quella era la strada obbligata. Al massimo per i giovani degli anni settanta la poesia poteva essere testimonianza dell’impegno politico o essere documento sociologico o di socioanalisi. La poesia pura della Cavalli non poteva andare bene: troppo confessional, come si dice in America. Il privato allora aveva senso solo se politico. L’astorico e l’apolitico insiti nella sua poesia, le sue contraddizioni amorose, le sue schermaglie sentimentali, le sue vicissitudini, la presa di coscienza dei chiaroscuri del suo animo non potevano andare bene o almeno andavano bene solo ai poeti e ai critici letterari. La poetessa si ritraeva dalla collettività, si ritagliava uno spazio personale, si isolava, al massimo compariva nei suoi versi un tu, una persona amata che non dava certezza, stabilità, amore contraccambiato. Poi nella mentalità comune degli anni settanta l’infelicità giovanile era un aspetto da rimuovere, era quasi un tabù: i giovani erano felici a prescindere perché avevano benessere e pace, cose che generazioni precedenti non avevano mai avuto. Inoltre la poesia giovanile poteva essere accettata socialmente come metafora dell’uccisione del padre, come testimonianza dello scontro generazionale. Ma la poetessa non si piegava a queste dinamiche edipiche, che allora diventavano politiche. La poetessa poteva essere considerata neocrepuscolare o per certi versi minimalista. Ma bisogna tener presente che il suo neocrepuscolarismo o se vogliamo il suo minimalismo erano più esistenziali che stilistici: riguardavano l’atteggiamento nei confronti delle tematiche della vita e non le forme, insomma il cosa e non il come. Berardinelli e Cordelli inserivano nell’antologia “Il pubblico della poesia” Patrizia Cavalli e scrivevano nella nota che era “la solita commedia piccolo-borghese e maledetta, almeno fino al giorno del riscatto consentito dalla poesia stessa” e che le sue liriche erano poesie che “bruciano in un attimo, nell’attimo, come piccoli fuochi”. Però va detto anche il suo “io singolare” divenne negli anni a venire un io plurale perché molti appassionati e cultori di poesia si riconobbero nella quotidianità, nella semplicità apparente e familiare del suo dettato, architettato sapientemente con una metrica ineccepibile. In un’altra celebre antologia poetica degli anni settanta “La parola innamorata” Patrizia Cavalli non era presente. Anni dopo la poetessa non sarebbe stata inserita neanche nell’antologia “Poeti del secondo Novecento” di Cucchi e Giovanardi. Ma non dimentichiamoci però che era stata la grande Elsa Morante a scoprire il suo talento. Non dimentichiamoci che negli anni settanta venne inserita nell’antologia “Donne in poesia – Antologia della poesia femminile in Italia dal dopoguerra ad oggi” della professoressa e poetessa B.Frabotta. È bene intenderci: Patrizia Cavalli si è meritata ampiamente di essere una poetessa riconosciuta, di essere edita dall’Einaudi e di aver vinto premi importanti. La poetessa con i suoi bei versi aveva il grande merito di far stupire, divertire e sorridere a denti stretti i lettori. Questo è innegabile. Ma bisogna anche tener presente che la sua generazione guardava altrove e cercava altro. La Cavalli è stata una grande poetessa non solo per aver fatto coesistere forma e contenuto, ma anche perché aveva capito tutto, anticipando i tempi. Inoltre la poetessa è stata ironica, autoironica, letteraria, intima con genuinità e grande talento. Non è stata epigona di nessuno. Erano unici e quindi inconfondibili il suo stile, la sua postura autoriale, insomma la sua voce. Con i suoi versi ci portava nel suo microcosmo, che però non era solo la sua sfera privata ma finiva per avere una dimensione universale: chi non aveva mai sofferto per amore ad esempio? La poetessa con i suoi versi declinava tutte le sfumature del suo disincanto e della sua solitudine. Ma lo faceva con lucidità e acutezza, senza cadere nell’autocommiserazione o nel sentimentalismo. Era una poesia che non cercava un altrove, che non attendeva Godot. Era una poesia che si collocava nel qui e ora per poi trovare i frammenti di eterno, che si possono trovare solo se veramente ispirati. Certamente era una poesia assertiva e oggi l’assertivitá, che viene vista come il miglior stile comunicativo dagli psicologi e dai linguisti, da certi critici letterari è considerata una grave colpa. Ma l’assertività della Cavalli era priva di titanismo come Whitman o di rivendicazione femminista: non era un urlo barbarico come in Whitman e non era fatta di “i say” come quella di Maya Angelou. E poi la sua assertività non aveva forse valenza culturale e sociopolitica, rivendicando a pieno diritto la soggettività femminile? Era una donna che parlava, che mostrava il suo dolore e il suo amore per la vita e per il mondo. Era una donna sola senza filtri, inganni, trucchi, pose, maschere. Ed era anche questa la sua originalità. Non c’erano neanche pessimismo e rassegnazione, ma uno stoicismo implicito nei suoi versi. Nonostante le sue magagne interiori aveva come arma l’autoironia, la leggerezza calviniana, che non la faceva mai sprofondare nell’abisso della tragedia privata, nell’autodistruzione, come invece accadde alla Sexton e alla Plath. Per capire le migliori poetesse odierne bisogna aver letto Patrizia Cavalli, che ha fatto scuola con il suo intimismo dimesso, onesto, dignitoso. Patrizia Cavalli dagli anni settanta in poi insieme ad Alda Merini, a V.Lamarque, a P.Oppezzo farà da spartiacque: le poetesse dopo saranno con loro o contro di loro. Le sue poesie non avevano cambiato il mondo, ma avevano di certo cambiato il modo di fare e concepire la poesia nella seconda metà del Novecento, se si ha onestà intellettuale per ammetterlo. Già negli anni settanta aveva capito che la poesia non poteva fare niente in pratica. D’altronde quando la poesia agli inizi del Novecento era incisiva i futuristi e D’Annunzio erano stati interventisti. Visti gli antecedenti, non necessariamente i poeti, se sono importanti nella società e hanno un ruolo preminente, scelgono la cosa giusta. La poetessa aveva già intuito allora che la poesia era ormai un genere di nicchia. Ha avuto quindi il merito indiscusso di aver capito con largo anticipo quello che sarebbe accaduto decenni dopo. Certamente Montale nel suo discorso per il Nobel aveva dichiarato che la poesia non aveva futuro perché eravamo in una società delle comunicazioni di massa. Era vero solo in parte. La Cavalli scriveva che le poesie non cambiavano il mondo perché solo la politica poteva cambiare il mondo. Era vero solo in parte. La poetessa riconosceva la scarsa incisività socioculturale, politica, economica della poesia. Oggi sappiamo che in una civiltà dell’immagine, tecnologica, scientifica, consumistica, capitalistica, produttiva, efficientista la poesia può pochissimo o addirittura niente. Questa è quella che Quasimodo definiva civiltà dell’atomo. Oggi ci sono le due culture di Snow più che mai. La professoressa di semiotica Giovanna Cosenza parla di complesso di superiorità di chi ha una formazione scientifica nei confronti degli umanisti e di un complesso di inferiorità dei secondi. È passato del tempo, Patrizia Cavalli è morta e oggi le poesie non solo non cambiano il mondo ma neanche nel loro piccolo le vite dei poeti. Per tutta una serie di motivi che non sto a elencare né a spiegare i poeti e le poetesse vengono riconosciuti, hanno gloria solo da anziani, nei rari casi che ce l’abbiano. I più non escono dalla nicchia della comunità poetica. Per gran parte della vita i poeti sono i soliti stronzi arbasiniani. Diciamocela tutta: è allungata la vita e per gli autori è aumentato il periodo in cui sono soliti stronzi. Certo ci possono essere le frequentazioni, i premi, le pubblicazioni, gli attestati di stima. Ma i poeti devono trovarsi un lavoro o fare la fame perché non esiste oggi il mestiere di poeta. E allora ne vale la pena? Come ho avuto modo di dire e scrivere più volte ma lo ripeto: questo mondo non appartiene a poeti e umanisti, poeti e umanisti non appartengono a questo mondo. E allora perché fare i poeti? Perché essere poeti? Fortini scrisse che nulla era sicuro, però bisognava scrivere. Giovanni Giudici ci ricordava che l’essere conta più del dire ma che non dire è anche non essere. I poeti dicono e quindi sono. L’unica alternativa è il non essere. Si ritorna al rapporto tra poesia e ontologia, alla poesia come manifestazione e rivelazione dell’essere. Ma la Cavalli aveva intuito tutto. Che poi dire che le poesie non cambiavano il mondo significava anche per logica deduttiva ed estensiva capire che l’umanesimo non avrebbe più cambiato il mondo. E qui bisogna fare una riflessione a largo raggio.
Un tempo la mentalità comune, la cosiddetta gente era fortemente condizionata da ismi filosofici e letterari, da scuole di pensiero, da scrittori, poeti, critici, professori. Certamente avveniva una volgarizzazione, una banalizzazione, una deformazione peggiorativa e talvolta fuorviante rispetto all’originale: talvolta la diffusione di certe idee e di certi valori era una copia infedele, talvolta addirittura un travisamento che sfociava nel qualunquismo becero, a volte le idee originali servivano come pretesto o giustificazione della violenza fisica o psicosociale (si veda ad esempio l’antisemitismo scaturito da una lettura fuorviante del cristianesimo o l’omofobia derivata dalla morale sessuale cattolica). Ma se si vuole capire perché oggi la società occidentale è relativista, bisogna capire il relativismo culturale. Se si vuole capire perché oggi la società è materialista, bisogna capire il materialismo filosofico. Se si vuole capire perché oggi la società è nichilista, bisogna capire il nichilismo in ambito filosofico. Se si vuole capire perché la società oggi è utilitarista e pragmatica, bisogna capire l’utilitarismo e il pragmatismo in filosofia. Se oggi la società è liberale, bisogna leggere i pensatori liberali per capirla veramente. Un tempo le rivoluzioni politiche iniziavano tutte da intellettuali umanisti ed economisti, che guidavano il popolo. Successe così anche in Italia nel 1848, ma si potrebbero fare molti altri esempi. Adesso idee, nozioni, apporti umanistici non fanno più presa sulle masse. Restano circoscritti nell’ambito degli studiosi e dei cultori della materia. L’ultimo ismo che ha condizionato veramente la mentalità comune a mio avviso è stato il relativismo culturale. I nuovi ismi e le nuove correnti culturali talvolta non sono neanche incisive tra gli stessi umanisti. E la colpa non è certo dovuta al fatto che oggi gli umanisti non siano più validi come un tempo: è soltanto la prova inconfutabile che oggi il mondo è cambiato e va in altre direzioni. Oggi fanno presa sulle masse i mass media, lo show business (che è strumento del potere e anch’esso potere), i politici (ancora per poco, forse), gli influencer dei social e i dirigenti delle multinazionali del web, che sono proprio coloro che pensano e decidano i modi di essere, di comportarsi, di pensare, di vivere del futuro. Insomma per l’umanesimo c’è pochissimo spazio e il futuro è deciso alla Silicon Valley e a Cupertino. In attesa di farci impiantare un microchip nel cervello questo è tutto.