Capire la malattia di Alzheimer

convegno sull'alzheimer

di Ernesto Bodini
(giornalista scientifico)

Nada, Bodini e RaineroDa tempo è definita anche la “malattia che ruba i ricordi”, un’espressione tanto emblematica quanto rispondente alla realtà. Stiamo parlando della malattia di Alzheimer (d’ora in avanti M.d.A.), ed è proprio su questa realtà che sovrasta il nostro pianeta con i circa 47 milioni di malati, di cui 10 milioni nella sola Europa, che il 7 aprile scorso si è tenuto un affollato incontro pubblico a cura della Città di Nichelino/Carmagnola (To), preordinato dalla volontaria Annarita Damiano, con la fattiva collaborazione della Newcoop, presentata da Enrico Nada (responsabile delle relative iniziative sociali) che, illustrando le finalità dell’iniziativa, ha ricordato che acquistando i prodotti della Coop si contribuisce a sostenere la ricerca scientifica, in particolare 25 borse di studio in tutta Italia. Dopo gli onori di casa dell’assessore alla Cultura del Comune di Nichelino, Diego Sarno, è intervenuto il prof. Innocenzo Rainero del Dipartimento di Neuroscienze “Rita Levi-Montalcini” dell’Università di Torino, e membro dell’Associazione Italiana Ricerca Alzheimer (AIRAlzh) – onlus. Partendo dal concetto generale che da quando gli egizi coniarono la parola “Cervello”, rendendola comprensibile, si sono fatti notevoli passi avanti; ma da qui a dire che sappiamo come il cervello funziona, ce ne passa ancora. Con il progressivo aumento della popolazione in età senile, la cui età media di circa 85 anni per le donne e 80 anni per gli uomini, l’Alzheimer (termine coniato dallo psichiatra Emil Kraepelin: 1856-1926 e con la prima descrizione di demenza senile di Alois Alzheimer: 1864-1915) e le varie forme di demenza, rappresentano oggi uno dei principali problemi socio-sanitari e assistenziali a livello mondiale. Infatti, pare che se entro il 2025 non si troverà un’adeguata strategia terapeutica, la M.d.A. e le demenze saranno motivo di fallimento di tutti i sistemi di welfare dei Paesi sviluppati. «Il termine demenza (che comprende la M.d.A.) – è stata l’introduzione di Rainero – indica solo un quadro clinico, ossia un insieme di sintomi che si associano ed è considerato demente il soggetto che ha un deficit delle funzioni cognitive (memoria, orientamento, etc.), la cui entità è tale da interferire con la vita quotidiana, e viene classificato paziente con demenza quando il quadro clinico ha raggiunto una certa gravità». In questi ultimi anni è stato dimostrato che ci sono molte altre malattie che posso essere causa di demenza, tra le quali la M.d.A. riguarda il 60% dei casi; pertanto è bene distinguere il termine demenza da quelle che sono le possibili malattie che la stanno causando. È opinione diffusa che la M.d.A. sia tout court una malattia genetica, e ciò è vero solo in parte in quanto le cause legate a un solo gene di malattia sono molto rare, mentre in realtà ci sono fattori genetici che possono predisporre chiunque allo sviluppo della malattia. «Nella M.d.A. – ha precisato il cattedratico – hanno un ruolo importante diverse malattie metaboliche come il diabete, l’ipertensione, le dislipidemie (ipercolesterolemia), l’infiammazione cronica e l’obesità. Recenti studi hanno dimostrato che chi è affetto da diabete di tipo 2, ad esempio, raddoppia il rischio di sviluppare la M.d.A., e questo a causa dell’insulino-resistenza».

convegno sull'alzheimerMa in concreto, come dobbiamo considerare la M.d.A.? «Oggi sappiamo – ha spiegato il relatore – che è una malattia complessa causata oltre che da diversi fattori genetici, anche dall’età, storia famigliare, traumi cranici, sindrome di down, etc. Per contro, vi sono fattori protettivi quali l’attività fisica, riserva cognitiva, adeguati stili di vita, dieta, controllo vascolare, etc.». Per quanto riguarda una più corretta definizione di questa malattia ha precisato che oggi si tende sempre meno ad usare il termine “demenza” (per via dello stigma sociale), preferendo il termine “disturbo neurocognitivo”, che può essere di grave o minore entità. «Le fasi diagnostiche – ha spiegato – vanno individuate nello studio preclinico, nel deficit cognitivo lieve e nella fase di M.d.A. in fase conclamata. I mezzi diagnostici di cui si dispone sono i biomarcatori (esame del liquor cerebrospinale), la risonanza magnetica, la Pet, i test genetici e gli esami di tipo funzionale». Per quanto riguarda la possibile prevenzione la stessa è certamente un obiettivo ambizioso ma purtroppo irrealistico. Considerando che la malattia è multifattoriale si hanno diversi elementi su cui si può intervenire come, ad esempio, un’attività fisica regolare (che ha un effetto “protettivo” sul cervello), l’abolizione dell’abuso di alcool a cominciare anche in giovane età, il coinvolgimento in attività cognitive stimolanti, una corretta e continuativa dieta alimentare. Insomma, cercare di vivere in modo sano e razionale in ogni possibile manifestazione della quotidianità. Ma a patologia conclamata cosa fare? «Il cardine del trattamento della M.d.A. – ha suggerito e concluso il prof. Rainero – è il supporto che il paziente può avere dalla famiglia o dal caregiver, oltre al trattamento farmacologico. La creazione di un ambiente famigliare idoneo è indubbiamente la prima terapia, mentre i farmaci hanno un effetto di rallentamento della progressione della stessa; ma va precisato che nessun farmaco, a tutt’oggi, migliora il deficit cognitivo. Infine, alle luce dell’attuale realtà, la ricerca ha bisogno di essere sostenuta per perfezionare le metodiche atte ad una diagnosi precoce della malattia. Un obiettivo che la Comunità scientifica si è prefissa di raggiungere entro il 2025 e, per questo, attraverso l’opera di un’alleanza strategica della triade a sostegno della ricerca: comunità scientifica, volontariato, famigliari dei pazienti».

Personalmente, in qualità di moderatore, ho ricordato che secondo un recente censimento nel nostro Paese per l’assistenza ai malati cronici vi sono 554 Unità Valutative Alzheimer (U.V.A.), 668 Strutture Semiresidenziali e 919 Strutture Residenziali per le Demenze, e che la spesa pubblica per le patologie cognitive è di circa 12 miliardi di euro. In tre città italiane (Mantova, Varese e Roma) stanno per nascere i “Villaggi Alzheimer”; si tratta, sul modello olandese (nei pressi di Amsterdam) di strutture per questi pazienti, costituite da case in condivisione con 8-10 persone che seguono il proprio ritmo impostato con uno schema ben preciso (una sorta di mutua famigliarità), e il cui personale è rigorosamente non in divisa. Mentre in Olanda queste “intelligenti” realtà sono a spese dello Stato, in Italia sono a carico dei privati e delle famiglie dei pazienti. Da qui l’informazione, peraltro utile e puntuale, ma anche il continuo ricorso al portafogli del singolo cittadino e della collettività che, come sempre, sborsano nella speranza di una concreta realizzazione.

 

Foto a cura di Michele Giovanditti (in alto E. Nada, E. Bodini, I. Rainero; in basso la platea)

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