Auschwtitz: per non dimenticare!

Sempre più sovente mi capita di leggere frasi di questo genere: “… l’olocausto dimenticato (Nanchino)…. l’eccidio spesso dimenticato (rom) … il genocidio dimenticato (Ruanda, Armenia).

È come se una ininterrotta e diffusa tragedia umana si scrollasse prepotentemente dall’atonia del tempo e dall’immota geografia, per rimanere viva e bruciante tra gli spazi delle nostre convulse comunità umane.

Ovunque, la memoria, nonostante lo zelo negazionista, si ostina a rintracciare e recuperare fatti ed eventi per custodirli e difenderli da oblio e silenzio.

La memoria è vigile. Diventa grido. E dalle profondità del tempo e della coscienza ci scaglia domande inquietanti, e sovente disperanti, sulla vulnerabilità dei nostri sistemi culturali e religiosi. Sulla esiguità delle nostre certezze comuni.

La memoria è viva. Tagliente. Inesorabile. Nel mentre ci confida ed affida la tragedia di uomini e donne sradicati con ferocia dalla comune terra ricevuta in dono, ci rimanda e restituisce alla genesi delle nostre comuni responsabilità storiche.

È memoria che accusa. Ammonisce. Il denominatore comune alle tragedie umane é nel cuore di ogni uomo. È nell’infinita pretesa di omogeneizzare a sé il resto del mondo.

Questo fiorire di sensibilità diffusa sembra ricondurci ad uno spazio già noto.

È come se Auschwitz avesse dilatato il suo potenziale simbolico e pedagogico ben oltre la sua specificità etnica e religiosa. Fino ad includere ed accendere la pietà per tutte le altre vittime nel mondo schiacciate dalla protervia del male assoluto.

Credo sia questo il primo ed universale significato di Auschwitz.

Tra altre doverose considerazioni.

Noi donne ed uomini di questo tempo possiamo, al di là e nonostante le presunte certezze delle nostre fedi, dei nostri retaggi civili, della nostra fascinazione per la bellezza, del nostro umanesimo strutturale, noi possiamo scegliere, con lucida razionalità e civile complicità, il baratro della non-umanità.

Possiamo rendere inefficaci i nostri patrimoni culturali e umanistici. Possiamo aggirare e tradire il comando inequivocabile e centrale della nostra fede cristiana: la carità.

Possiamo. Distruggendo l’unica legge possibile di convivenza: il riconoscimento del comune sigillo di dignità ed inviolabilità della vita. Nella libertà. E nella sinfonia delle diversità.

Non siamo immuni da questa possibilità. Ne siamo esposti e contagiati.

Per fragilità creaturale. Per brama di potere.

Come cristiani dobbiamo lasciarci provocare da Auschwitz. Non dobbiamo e non possiamo eludere il passato. Esso cammina con noi. E ci inquieta. Ci interpella.

È vero. Sulla modalità di riproposizione storica degli eventi sfociati in Auschwitz, pesa, sovente, la vastità e radicalità del male fin quasi ad adombrare alcuni aspetti significativi compresenti. Ma, a guardare bene, nel cuore dell’evento commemorativo non è affatto secondario il valore testimoniale di quanti, a rischio della propria incolumità, si sono adoperati per salvare milioni di ebrei, ovunque e meticolosamente braccati nell’Europa cristiana.

In molti hanno professato attivo dissenso alla malvagità dominante. Cristiani e non.

Ed è un segno considerevole. Le nostre scelte personali e comunitarie tracciano sempre sentieri indelebili. E la vigilanza è palestra per non scivolare nella barbarie dello spirito e del cuore.

Anche loro sono dinanzi al nostro sguardo. Anche loro ci parlano.

Pensando ad Auschwitz, è difficile sottrarmi al fascino vigoroso di una donna eccezionale: Edith Stein. Filosofa, ebrea tedesca, carmelitana. Quando fu prelevata dalla Gestapo dal suo monastero in Olanda, prese per mano la sua sorella Rosa: “Vieni – la esortò – andiamo a morire per il nostro popolo”.

Auschwitz fu il loro epilogo. Il luogo-simbolo che ancora oggi ci costringe a ricordare.

A riflettere. Ad imparare.

E se ci ammutolisce e l’orrore e l’enormità della tragedia, osiamo credere che essa non è perduta.

Fin quando sapremo ascoltare con cuore libero, Auschwitz non sarà stata vana.

Lo dobbiamo a coloro che sono stati stroncati nell’anonimia del male. A coloro che ci seguono nella catena generazionale. A noi stessi.

Per purificare ed appianare le nostre ancora persistenti e sottili ragioni di inimicizia.

Per maturare comunitariamente nella coerenza di ciò che riteniamo siano valori civili e religiosi irrinunciabili per una coesistenza fecondamente umana. Per essere testimoni efficaci per la generazione veniente.

La memoria come dovere. La memoria come vigilanza attiva. Come umiltà e conversione del cuore. Come pietà.

La memoria come pedagogia di responsabilità nei confronti della vita. Di ogni vita che ci è posta a fianco, sia essa umana che vegetale ed animale. Perché ogni vita è preziosa. Ogni vita è dono di Dio. Ogni esistenza svela ed accresce la meravigliosa, inesauribile e multiforme bellezza della nostra casa comune: la terra.

Emanuela Verderosa

 

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