L’angolo di Full: “Un desiderio che si chiama tram”

Un desiderio che si chiama tram

Era il periodo in cui tentavo la sfortuna in fabbrica. A Milano.
Pochi anni, pochi soldi e, in testa, nient’altro che i riccioli. Pagata la pensione, avevo bell’e finito la paga.
Il mio caposquadra, che mi voleva bene, filava una inserviente della mensa per farmi avere una doppia porzione giornaliera di pastasciutta così che arrivassi al giorno dopo senza svenimenti: “a causa tua mi toccherà scoparla”, rideva.
La fame ispirerebbe poeti e pittori, dicono. In realtà, pensare a stomaco vuoto è un’impresa disperata e, in quella situazione, ci si può soltanto innamorare che, infatti, è una condizione psicolabile.
Innamorato lo ero in continuazione e, non appena accennava a passarmi, mi “facevo” di nuovo perché quella era la mia eroina.
Per le conquiste non potevo permettermi i dancing o le balere che frequentavano i miei amici: il solo biglietto alla mia portata era quello del tram. Così, per un giorno smettevo la bicicletta, investivo i miei risparmi in due biglietti e mi permettevo il lusso sfrenato di un tramvai.

Più che strafighe, le ragazze me le cercavo carine perché erano quelle che più mi scioglievano.
La mia tattica, d’una semplicità disarmante, era fatta di sguardi morbidi e non troppo insistiti per non dare disagio. Purtroppo erano occhiate a senso unico perché le carine, dopo un primo lampeggio, guardavano ovunque meno che nei miei occhi dei quali, tuttavia, non perdevano un solo battito di ciglia.
La mia fermata era quella dei poveri cristi, cioè il capolinea e l’innamoramento avveniva, di solito, quando scendeva la Carina. Ormai al sicuro sul marciapiede e fatti salvi i suoi vincoli, compreso il pudore che era sempre il più restio, la Carina cercava i miei occhi attraverso il finestrino per abbandonarsi a un unico, prolungato sguardo saturo di tutto, compresi arco e freccia per infilzarmi come un pollastro. A volte, in quegli occhi che s’allontanavano sul marciapiede, credevo di cogliere un grido in risposta al mio, e mi turbavo ancor più.
Il giorno dopo, innamoratissimo, tornavo alla mia bicicletta, d’altronde non c’avevo una lira per reggere nemmeno una mezza morosa, né la disinvoltura per propormi.

Erano amori fuggevoli come i saluti alla stazione e presto dimenticati come si dimentica l’ombrello nei bar. Amori che duravano il tempo di una luna e quando questa tramontava, tornavo a “farmi” in tram.

Credo che quei successi platonici dipendessero dal fascino dimesso e gentile che hanno povertà e timidezza guarnite di riccioli. Poveri monili che bastavano ai sogni di molte ragazze. Per me e per loro, un grappolo di palloncini colorati per sollevarci appena.

Però non mi andava sempre così bene. Una volta incappai in una tipa molto spigliata, e con tutt’altro grido nello sguardo, che m’infilò nel suo letto facendomi scoppiare tutti i palloncini.

Fulvio Musso

 

 

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