L’angolo di Full: “Un bancomat d’amore”

Oggi è San Valentino e vogliamo festeggiarlo con un racconto autobiografico del maestro Full. Abbiamo scelto questo brano non solo perché è bello e a tema, ma anche perché invoglia a riflettere sull’amore reale, quello che si fa beffe dei luoghi comuni e rende possibile l’impensabile, gioie come pure amarezze.

Con tanti auguri agli innamorati, vi lasciamo alla lettura del racconto.


bancomat d-amoreUn bancomat d’amore

      Oscar Wilde diceva che, dapprima, abbiamo la faccia che ci ha dato madre natura, poi quella che ci meritiamo. Chiaramente, all’epoca, non c’era la chirurgia plastica né il botulino, ma allargando il concetto di Wilde, potremmo scaglionare i cosiddetti attempati in infinite categorie: menogiovani, inossidabili, pimpanti, giovanili, maturi, datati, anziani, scaduti, decrepiti,  n.p.p.h. (ne passera pas l’hiver), morenti, mummie… –tutti, con o senza botulino–.
Tuttavia, quando vediamo un uomo maturo accompagnarsi a una giovane e bella signora, non c’è Wilde che tenga e subito insinuiamo: è chiaro, lui è il suo bancomat. E… se la signora è anche strepitosamente sexi, sulla teoria del bancomat ci giocheremmo pure lo stipendio.
Ebbene, credo che mi dobbiate tutti uno stipendio.

La cosiddetta maturità l’avevo raggiunta –e passata– da un pezzo quando ebbi occasione di rubare un paio di frasi ai dialoghi di alcune giovani e piacenti signore; parole che m’aprirono gli occhi e svegliarono i quattro neuroni rimasti.  La prima frase era riferita a un ordinario e velleitario rubacuori: Quello? Figurati! Avrà almeno sessant’anni! Una sentenza lapidaria che mi annichilì e, per un attimo, guardai quelle strafighe attraverso il vetro della mia bara.
La seconda frase, carpita in altra circostanza, si riferiva a un personaggio molto distinto e, devo credere, fascinoso: avrà pure settant’anni, sussurrava una splendida trentenne, ma un pensierino ce lo farei.
Nell’età matura s’impara, quanto meno, a collocarsi con buona approssimazione nella scala degli effimeri valori, così mi decisi a riaprire il negozio per i saldi di fine stagione. Magari non sarebbe entrata nemmeno un’acquirente, ma l’importante è tenere alzata la serranda e accesa la vetrina, cioè indossare l’abito mentale giusto.

Molti dei miei anni ‘anta erano ormai fuggiti con la dimensione di una ritirata e la festa si svolgeva nella villa marina di parenti piuttosto… larghi. Non avevo nemmeno sollevato i mocassini dalla pedaliera dell’auto che già l’avevo notata: per me, l’unica donna fra le tante e variegate presenze femminili.
Gli uomini le ronzavano intorno, ognuno spiritoso e galante al proprio meglio o, al proprio meglio, goffo. Ricordo che, per pomparmi un po’, qualcuno mi presentò a lei come scrittore procurandomi qualche disappunto che lei notò e stemperò con un simpatico sorriso d’intesa.
La festa scivolava via bene e il mio sguardo ciondolava spesso dalle sue parti, non saprei dire se corrisposto perché la divina barava mascherandosi con grandi occhiali fotosensibili. Era seduta s’un divanetto sotto il grande portico e si teneva accanto una cuginetta, quasi un segnaposto ad evitare invadenze non gradite. Infatti, quando la ragazzina sgusciò via, lei s’accomodò ad occupare l’intero divanetto con un gesto istintivo che definirei di assuefazione a lusinghe e galanterie.
M’avvicinai e cominciammo a parlare. Presto affondai un paio di  frasi buone ad addolcirla sino al bacino che ruotò, infatti, di trenta gradi a liberarmi il posto accanto. Conversammo amabilmente per quasi tutta la festa e quando, col sole ormai morente, si tolse i grandi occhiali scuri, restai come un bimbo davanti ai doni di Natale. Non era solo giovane e bella, era… strepitosa e “questo scrittore” restò qualche momento senza parole a ricostruirsi una parvenza di sorriso nella più muta e fantastica dichiarazione d’amore che una donna possa ricevere. Ora non dirò quanto, quel “figlio di put d’uno scrittore”, recitò il suo stupore, ma è anche vero che, sull’altare della bellezza, aveva venerato molte beate e alcune sante, mai angeli né madonne.

Ebbene, quindici giorni dopo, un impudico angelo col perizoma di pizzo nero, volò su quattrocento chilometri d’autostrada per trascorrere il fine settimana con me.
Ricordo che passeggiavamo sul lungolago di Lugano e ogni tanto incocciavamo le occhiate dei curiosi che mi squadravano come si guarda un bancomat, facendo morir dal ridere i nostri cuori che s’erano appena scambiati i codici d’un fornitissimo bancomat d’amore.

Noi narratori siamo degli sparapalle, d’accordo, però le palle non ci servono soltanto per esagerare o infiocchettare la realtà, ma anche per mitigarla, come in questo caso.
Ora potrei infilare un bel finale ad effetto e fare tutti contenti sorvolando su quelli che, per me, sono i dettagli più suadenti. Ma in omaggio a lei, mio ultimo sole, concluderò con la pura verità, una piccola pepita di soave semplicità che avrei voluto tenere tutta per me.
fulvio mussoUn giorno le dissi: mi sta bene avere questa valanga d’anni più di te. Se fossero soltanto venti, potrei covare delle stupide illusioni.
Lei si tolse i grandi occhiali scuri e mi fece gli abbaglianti come quando mi rifilava le sue spudorate verità, micidiali o sublimi: se tu avessi vent’anni più di me, disse in un soffio, ti chiederei di sposarmi.

Fulvio Musso

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