L’angolo di Full: “Lo scribacchino”

Nel brano di oggi, con la consueta ironia (e autoironia) Fulvio Musso ci ricorda che scrivere è cosa diversa dall’esser scrittore e che anche lo scrittore non è per forza Scrittore. Noi, però, pensiamo che lui Scrittore lo nacque.

 

Lo scribacchino

La cittadina di Sant’Onorato Sottoilmonte attraversava un periodo di prospera operosità rispecchiata nella florida economia nazionale. Il caffè più antico del borgo sfoggiava le nuove divise “firmate” del personale mentre la proprietaria sorrideva agli avventori con una nuova, strabiliante dentatura di resina e porcellana perfettamente intonata allo smalto dei tavolini liberty. I giovanotti della cittadina perseguivano le ragazze dei dintorni con la baldanza e la sicurezza conferite loro da vetture sempre più imponenti e da Suv sempre più cromati. I vecchi morivano con cronometrica regolarità procurando ulteriore impulso all’economia attraverso lo sfrenato sperpero delle eredità. Il locale concessionario Peugeot-Citroen aveva rinnovato il parco auto di tutta la zona divenendo tanto noto e potente da presentarsi alle elezioni provinciali. Di conseguenza aveva ripreso, per ogni buon fine, ad assistere alla messa domenicale mentre la moglie sostituiva la vecchia e scorbutica domestica con due ragazze peruviane il cui colorito bruno s’intonava a meraviglia col biancoceleste dei grembiuli, e la loro innata riverenza ben s’inchinava al sussiego della signora che considerava questa decisione il primo elementare passo di una futura first lady.
In tutto il borgo, l’unico che ancora circolava con un’auto senza climatizzatore e la targa di vecchio tipo, era Annibale Cantalamessa qualificato dai più come scribacchino. Un termine severo per lui che conosceva la sintassi e le regole fondamentali della narrativa. Gli mancava semmai l’anima dello scrittore, cioè quella lente d’ingrandimento rivolta all’interno che scova, scruta e valorizza le proprie risorse più preziose e sotterranee. A quel baratro letterario, Cantalamessa ovviava con una spolverata di termini reboanti e forbiti a condire il tutto. O il nulla.

    In bella evidenza sulla scrivania, per chiunque mettesse piede nel suo bilocale, c’era il romanzo che aveva scritto e pubblicato a proprie spese. Stupiva che fosse autore di quell’unico libro perchè, seduto per ore al picì, Cantalamessa scriveva furiosamente. Ai direttori di giornali, ai pubblici amministratori, agli esponenti della cultura e dell’arte, senza ricevere risposta di sorta anche se, in verità, un po’ di corrispondenza gli arrivava. Infatti, mentre gli amministratori pubblici ignoravano sistematicamente le sue lettere, gli oppositori politici –aspiranti amministratori pubblici– gli rispondevano sollecitamente con questa invariata espressione: “Egregio signor Cantalamessa, stiamo seguendo con la migliore attenzione la questione che ci ha cortesemente sottoposto e La ringraziamo sentitamente per le preziose indicazioni in merito.”
Una tiritera alla quale lui rispondeva comunque e con estrema cura, firmandosi per esteso: Annibale Cantalamessa, un nome e cognome la cui lunghezza è di per sé motivo di soddisfazione per un grafomane. Della sua anagrafe, infatti, si compiaceva molto. In particolare del pomposo “Annibale” che pure l’aveva fatto vergognare sino alla sofferenza, da ragazzino, quando vagheggiava nomi più da cristiano come “Marco, Giorgio, Luca” o, alla peggio, “Giovanni”.

     Lo scribacchino viveva con una pensione di invalidità al netto dei pasti che consumava regolarmente in casa di una sorella vedova e benestante. Non vantava altri redditi perché, la parziale inabilità al lavoro che gli veniva riconosciuta per un incidente stradale, andava ad integrare perfettamente la propria inidoneità costituzionale ad una qualsivoglia attività faticosa e proficua.
Non era bello, Annibale Cantalamessa, ma aveva lunghi capelli d’un biondo delicato che gli incorniciavano il viso come un’aureola di fragilità infantile. Inoltre era abbastanza alto e, in un paese latino, queste due caratteristiche bastano e avanzano, cosicchè, quando non scriveva, passava il tempo procurandosi facili incontri nei dancing e discoteche della zona.
Le numerose ossa variamente rotte e riaggiustate non gli consentivano tutti i movimenti e nei rapporti amorosi doveva assumere atteggiamenti passivi lasciando alla compagna di turno quelli più dinamici. Questa sua carenza fisica acuiva i sentimenti materni delle sue partner che si superavano nel profondere se stesse e alla fine dell’amplesso, affrante di fatica oltre che paghe, pensavano che mai avevano goduto un rapporto così intenso e partecipato.
Le frequentatrici della sua camera da letto erano, in pratica, le sole lettrici del suo romanzo che sfogliavano fra un godimento e l’altro e che definivano, di volta in volta, raffinato, ben scritto, di grande sensibilità. Garbate perifrasi che volevano comunque significare: è di una noia bestiale!

   «E’ di una noia bestiale!» esclamò Valentina, una donna che veniva da lontano, in tutti i sensi, e che aveva letto le prime due pagine del romanzo nel corso della goduriosa prassi.
La verità ha un suono argentino che valse all’opinione di Valentina più considerazione che per tutte le altre messe insieme, così Annibale Cantalamessa le tolse il volume di mano e lesse, a sua volta, la dura sentenza racchiusa in quelle prime due pagine. Non apriva quel libro da anni e, per la prima volta, si trovò sostanzialmente d’accordo con quel duro responso.
«Peccato», lo consolò Valentina, «hai uno stile che potrebbe piacere, ma non sei convincente. Si direbbe che tu scriva tanto per dire qualcosa mentre si dovrebbe scrivere solo se si ha qualcosa da dire.»
«E’ una vecchia regola della narrativa, ma tutto è già stato scritto» protestò lo scribacchino.
«Perché non provi a raccontare qualcosa di vero?» propose Valentina il cui tono di voce, basso e marcato, sembrava venire da echi lontani e dava alle sue parole la gravità d’un sigillo notarile.

   Suggestionato dalla solennità di quel responso, per venti giorni Cantalamessa non s’avvicinò al picì. Poi, improvvisamente, fece notte alla tastiera e il racconto che ne uscì, ben impaginato con carattere prestige, custodì il proprio segreto in una recondita memoria del computer.
Lo scribacchino, che durante la composizione aveva pianto rivivendo i momenti più sofferti della propria vita, lo mostrò soltanto a Valentina che, impacciata e quasi infastidita per avervi ravvisato la nuda verità, del tutto priva delle sapienti malizie narrative, evitò di dare giudizi sicuramente inadeguati all’impegno emotivo dell’autore, ma s’uniformò ai cori definendo il brano “raffinato, ben scritto, di grande sensibilità”.  
Così pietosamente travestito, il responso di Valentina riuscì più efficace d’una rivelazione brutale e, per un anno intero, lo scribacchino non scrisse un rigo. Dalla sua scrivania scomparve l’esposizione permanente della sua “opera prima” e la scrivania stessa rischiò l’eliminazione a favore di un bigliardino di terza mano.

   Geneticamente negato per le colte letture classiche, Cantalamessa si polarizzò sugli innumerevoli e variegati libri di culinaria e, come accade, abbinò ben presto la teoria alla pratica. Col fegato sott’olio extravergine di frantoio e i reni speziati alle erbe di Provenza, acquisì una decina di chili, anche per la sedentarietà impostagli dalla scrittura d’un poderoso volume di cucina inerente le più fantasiose –e improbabili– risorse culinarie dell’esclusiva “salsa Annibale”.
Poi, una lontana zia gli sbolognò uno dei suoi nove cuccioli di dalmata che ebbe la sventura di ispirargli, a proprio discapito, un dettagliato manuale sulla “Educazione del cane in 13 lezioni basilari”. Una patologia cinofila conclusasi repentinamente con l’improvvisa infatuazione dello scribacchino per un’avvenente ragazza mormone che gli procurò una crisi mistica del tutto passeggera, ma sfociata comunque nel milionesimo libro della serie: “Tutta la verità sui Vangeli”. Scrisse poi di arredamento, floricoltura, cinema e, quando comparvero i primi siti letterari nella rete web, aderì a tutti.

    Coi capelli ormai bianchi e gli inevitabili acciacchi dell’età, Annibale Cantalamessa ha acquisito finalmente la serena consapevolezza e l’amabilità di chi, non avendo mai avuto un c… da dire –o da scrivere– si risolve a farlo in silenzio.
O
ggi, le parole crociate gli placano l’impenitente grafomania mentre il suo vecchio cane, educato “in 13 lezioni basilari”, va pisciando placidamente sul tappeto.

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(A me stesso, con cauta simpatia, dedico)

 

Fulvio Musso

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