L’angolo di Full: “L’ingegnere”

Da un mese aveva preso dimora di fronte all’ingresso dello stabilimento, nella profonda rientranza di un portone sempre chiuso.
S’era portato i suoi cartoni, le coperte, il guardaroba contenuto in alcuni sacchetti di plastica, le cianfrusaglie dentro una cassetta che usava anche come sgabello e un pacco di giornali vecchi da leggere.
«Ē un ingegnere» diceva Faelli che lavorava nella mia squadra.
«E tu come lo sai?»
« Me l’ha detto lui.»
«E a te sembra normale che un barbone ingegnere si preoccupi di fartelo sapere? Se ci tenesse farebbe l’ingegnere, non il barbone.»
«Se ti dico che è un ingegnere, è un ingegnere» ribadiva Faelli già risentito. Ci metteva poco, lui.
Insieme, lui ed io, tentavamo la sfortuna in fabbrica assemblando impianti elettrici. Aveva trent’anni più di me e m’aveva insegnato quel lavoro. Così, qualunque cosa mi dicesse, dovevo prenderla come un insegnamento, e basta. Lui era l’indiscusso caposquadra per un diritto sancito da tante cose e soprattutto dalla sua paga che era il doppio esatto della mia.
Era una gran brava persona e credo mi volesse anche bene.
Un giorno m’aveva portato a casa sua per farmi assaggiare i tortelloni di magro impastati da sua moglie ed io non avevo mai immaginato che si potesse mangiare così bene. Un’altra volta portò in reparto una bottiglia di Albana che lui definiva da Messa Grande e mai, nella mia vita, avevo assaggiato un vino così squisito.
Anche questi episodi mi dicevano che, da Faelli, c’era solo da imparare e se lui diceva che quello là era un ingegnere, era un ingegnere.
Non passava giorno che non citasse qualcosa del suo ingegnere:
«Gli ho raccontato la mia lite col direttore che si crede tanto intelligente e lui mi fa: l’intelligenza senza buon senso è un’aggravante. Che testa che ha quello lì! Gli ho dato settanta lire.»
Se confidavo a Faelli un mio problemino, la sua risposta era scontata:
«Al tuo posto ne parlerei all’ingegnere.»
In ogni questione, lo metteva in mezzo:
«Avessimo uno come l’ingegnere nella Commissione Interna, sai come li metterebbe in riga questi nostri mollaccioni di sindacalisti! Oggi m’ha detto: in Italia, il socialismo è proletario e i socialisti sono borghesi. Ha capito tutto, quello.»
«Lui, i suoi problemi sindacali li ha risolti da un pezzo» grugnivo io.
Avido lettore di quotidiani che prendevo a prestito, avevo ormai collegato le formulazioni dell’ingegnere al pacco di giornali vecchi che si rileggeva. Tutte le citazioni che lui lasciava intendere per proprie, appartenevano a giornalisti famosi.
All’epoca, la mia intransigenza avversava l’accattonaggio perché il mendicante è quasi sempre un attore che impersona la povertà e fa di tutto per amplificarne l’aspetto. Di fatto, l’accattone simboleggia l’inerzia ed i suoi sottoprodotti, come la sciattezza fisica e mentale che spesso trascende nel vizio.
La disperazione, che accompagna la povertà più vera e drammatica, non rientra nei sentimenti degli accattoni che, infatti, devono fingerla.
Io, che ero un poveraccio doc, discreto e decoroso com’è la povertà vera, non tolleravo la recita della loro miseria per la propria e per l’altrui commiserazione. Dunque, non recitavo elemosine per loro.
Tuttavia, suggestionato dal mio maestro Faelli, un giorno che passavo davanti all’ingegnere gli allungai due banconote da venti lire e, per non fargli pesare l’elemosina, buttai lì una frase di pura cortesia:
«Come va? Non s’annoia a starsene sempre qui a leggere?»
Mi rottamò un sorriso sdentato subito convertito in un’aria solenne e preliminare a quanto s’accingeva ad enunciare:
«Fare le cose utili, ragazzo, dire le cose coraggiose, contemplare le cose belle: ecco quanto basta alla vita dell’uomo.»
Aveva capelli e barba lunghi, sporchi e incolori che gli conferivano più anni di quanti ne avesse e la sua faccia rossa bruciava come un caminetto di montagna.
L’ingegnere spingeva ben oltre la recita del comune mendicante. Non impersonava solo la povertà, ma indossava anche il sofisticato costume dell’ingiustizia che butta crudelmente nella miseria un uomo colto, saggio e fatalmente decaduto (della serie miseria e nobiltà).
Continuò a scrutarmi attraverso due fessure sottili aspettando un mio moto di ammirato stupore per il suo sapere.
Ma io ero troppo severo e troppo povero per fare concessioni superiori a due banconote da venti lire, così replicai gelido:
«Questa massima di Eliot era sull’Avanti di ieri, ma la tua interpretazione è arbitraria visto che le cose utili le dici anziché farle e le cose belle non le contempli di sicuro rimanendo seduto in un portone.»
Gli abbuonai la considerazione sulle cose coraggiose perché non ero uno che infieriva.
In un certo senso, mi dovette considerare un pericoloso concorrente –in quanto a povertà lo ero– perché vidi sciabolare, da quelle sue fessure, l’odio del mendicante che, seduto nel suo angolo, vede avvicinarsi un altro accattone.
Due giorni dopo, Faelli entrò in reparto con l’ombrello appeso al braccio nonostante un sole da sballo: «L’ingegnere m’ha detto che pioverà» annunciò fiero infilando il paracqua in un bidoncino vuoto.
«L’ingegnere? Ma non c’è più, ha sbaraccato!» protestai.
«Ē vero. S’è spostato di fronte al cotonificio. Dice che il portone qui davanti è pieno di correnti d’aria, poveretto!»
Non lo rividi più. In definitiva, era un onesto barbone che ricambiava l’elemosina con delle pillole di saggezza che prendeva a prestito dai vecchi giornali.
Pillole troppo blande per curare la mia boriosa intransigenza giovanile.
Fulvio Musso