L’angolo di Full: “Il presidente”

Il presidente

Per la serie: una persona che non dimenticherò mai

         Lassù, al ventunesimo piano, una scheggia di luce bianca indicava la finestra del presidente. Sempre accesa, come il lumino della chiesa, vegliava sull’azienda.
Imprenditore di vecchio stampo, era il mio presidente. Di poche, chiare parole.
Avevo avviato e sviluppato l’informatica gestionale nelle sue aziende operandovi per un paio di decenni, ma avevo avuto modo di conoscerlo meglio solo negli ultimi anni: il “vecchiaccio” che se li mangiava ancora tutti con un’occhiata.

«Lei è un sentimentale», mi disse il giorno in cui cominciammo a frequentarci un po’ più spesso.
«E non va bene?» gli chiesi.
«Per gli altri, si. Per lei, un po’ meno».
Poco a poco, diventammo amici. Non è da tutti raccogliere le confidenze del presidente di un gruppo  industriale.
Del suo direttore generale, che considerava molto guardingo, diceva: «Formiamo un buon team: io mi occupo dell’acceleratore, lui del freno».
La metafora automobilistica derivava dai suoi trascorsi giovanili come pilota di rally, corteggiato addirittura dalla “Lancia”, mi raccontava. Ma non era tipo da celebrarsi e queste cose, in azienda, le sapevo solo io.
Dei dipendenti diceva: «Non do torto a chi rema per conto suo anziché remare con l’azienda. È un suo diritto umano. Chi rema contro, invece, è pericoloso quanto lo sono i cretini.»

A casa sua si pranzava serviti dal cameriere in guanti bianchi, ma sia il menù che la conversazione erano tanto semplici e schietti che  provavo un po’ di soggezione soltanto per quei guanti bianchi.
Era incline alla battuta e al sorriso, ma sul lavoro sapeva essere molto secco. Per mettere sull’attenti un qualche dirigente svagato, gli bastava l’intenzione.
Aveva passato da tempo i settant’anni quando subì due interventi chirurgici a breve distanza di tempo.
In ultimo lo vedevo, a tratti, un po’ malfermo sulle gambe e, la sera, con la scusa di proporgli qualche nuovo progetto, l’accompagnavo nelle poche centinaia di metri che lo separavano da casa, nel centro storico di Milano. Così, a fine giornata, mi preveniva telefonandomi: «Se lei ha finito, fra dieci minuti usciamo». Sapevo che mi assecondava per soddisfare le mie premure, non perché temesse per sé.

        Il garbo, la sensibilità che s’affacciavano in silenzio da quelle sottigliezze, sono un ricordo che ancora accarezzo.
Rividi sua moglie al funerale e mi sembrò molto più piccola, così ripiegata su se stessa. Le porsi le condoglianze, ma non mi riconobbe. Tanto, quel giorno, dovevo apparirle più piccolo anch’io.

Fulvio Musso

nda: Negli anni, ho conosciuto e frequentato altri presidenti, ma questo resta il mio presidente e dedico a lui il brano.

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