L’angolo di Full: “Giacomone”
Se Fulvio Musso dovesse presentare un documento d’identità letteraria potrebbe presentarsi con questo brano che vi presentiamo oggi: qui, infatti, vi si ritrova tutta la sua poesia, la sua ironia, il suo spirito critico e la sua straordinaria abilità, tipica del vero Narratore, di fare letteratura senza dei né eventi sovrannaturali, semplicemente raccontando di uomini e fatti straordinariamente normali … o, se preferite, ordinariamente straordinari.
Giacomone era un omone grande grosso e lento il cui abbigliamento, rigorosamente invariato, riassumeva tutte le stagioni in una rigonfia giacca a vento di pura plastica abbinata a un berretto di tela con visiera trasparente e scarpe da ginnastica logore. Girava sempre con un vecchio motocarro Ape, lento come lui, che gli serviva per ritirare i cartoni vuoti dai supermercati e per ogni altra esigenza di trasporto personale.
Anche nel parlare, Giacomone metteva la stessa esasperante lentezza del suo motocarro del quale aveva assimilato i corti rapporti di marcia.
Abitava l’ultima casa di una via periferica nella parte bassa della cittadina, una costruzione vecchia, disadorna e piena di cianfrusaglie.
Un pomeriggio, al rientro da uno dei suoi giri indolenti, trovò due operai in cima ad una scala che praticavano un buco sulla facciata della sua abitazione, all’altezza del primo piano.
«Beh?» fece Giacomone dopo aver arrestato l’Ape a ridosso della scala.
«Siamo dell’Azienda Elettrica» rispose uno di loro.
Dopo qualche blanda e inutile rimostranza, Giacomone restò a guardare il loro lavoro seduto sullo scalino del marciapiede di fronte.
Gli operai finirono di scalpellare intorno al buco, vi inserirono un grosso tassello, lo sigillarono con cemento a presa rapida e vi avvitarono un lungo perno d’acciaio al quale agganciarono un cavo di sostegno alla linea elettrica. Poi se n’andarono lasciando polvere, calcinacci e sfridi esattamente dov’erano caduti.
Un’ora dopo cominciò ad imbrunire e Giacomone era ancora lì ad osservare l’ombra del cavo che tagliava a metà la facciata rosea della sua casa partendo da quella ferita fresca che s’allargava nell’alone scuro del cemento come una botta in fronte s’allarga dolente nel livido. La lunga cicatrice si concludeva nella luce fioca di una finestrella dove un’ombra arruffata, incorniciata da una tendina di tela grezza, aspettava invano di buttare la pasta in pentola.
Il mattino seguente, Giacomone fermò il proprio motocarro di fronte alla sede locale dell’Azienda Elettrica.
Tallonato da un portiere che cercava inutilmente di trattenerlo, l’omone salì al primo piano e spalancò la terza porta a destra che, come s’era informato, immetteva nell’ufficio dell’ingegnere capo.
Questi era un romano dall’aria irritabile e nell’insieme schifato come se fosse continuamente sfidato da una situazione di insopportabile ripugnanza. Sollevò lo sguardo dal giornale che stava leggendo posandolo in forma interrogativa –oltre che schifata– prima su Giacomone e subito dopo sul portiere che gli rispose allargando le braccia.
Placido nella sua imponenza fisica accentuata dal giaccone rigonfio, Giacomone trasse di tasca un grosso chiodo quadro, da carpentiere, insieme a un martellaccio da muratore e con due colpi secchi e precisi conficcò il ferro nel centro esatto della preziosa scrivania di mogano dell’ingegnere che, data l’espressione naturalmente schifata, non poté che restare impassibile.
«Me son Giacomon», annunciò grave l’omone parafrasando la laconica risposta ricevuta dagli operai.
Poi, lasciando gli astanti ingessati nelle rispettive espressioni, schifata una, ebete l’altra, Giacomone girava sui tacchi e, mezz’ora dopo, fermava l’Ape sotto casa, nella fragranza della peperonata e di un largo sorriso arruffato, affacciati alla tendina di tela grezza.
Fulvio Musso
Postilla dell’autore: “Questa storia, rigorosamente vera, m’aveva intrigato molto perché, nella mia proprietà, esiste una centralina della società telefonica impiantata dall’azienda senza nemmeno avvertirmi.
Giacomone, dunque, ha saputo porre –e martellare– sul tavolo anche le mie rivendicazioni.
Per questa ed altre ragioni, l’ho messo nella bacheca virtuale che racchiude tutti i miei beniamini.
Dovreste vederlo nella foto di gruppo! Ve lo mostro: lui è il più grosso di tutti e ha un’aria beata, stretto fra Robi Baggio e Piero Angela”
Caro Fulvio, ti leggo sempre perché so che alcuni minuti della mia vita saranno lieti e addolciti molto dalla tua scrittura ma non ho più parole ormai per commentarti 🙂 Un carissimo saluto.Fernanda