Aldo Moro, la memoria e il perdono
Durante l’incontro dedicato ad Aldo Moro il 13 novembre 2015 a Cagliari, che ha visto la partecipazione della figlia Agnese, sono stati toccati temi cruciali quali verità, storia, diritto e giustizia. E ampio spazio hanno trovato anche il valore del perdono e della memoria.
Un incontro dedicato ad Aldo Moro non può che proporsi di adempiere al dovere della memoria. Così è stato anche per quello organizzato a Cagliari lo scorso 13 novembre dal Rotaract Club Golfo degli Angeli in collaborazione con Progetto Studenti.
Ma in quest’occasione molto spazio ha trovato pure il tema del perdono, quello che Agnese Moro, figlia dello statista democristiano, ha accordato – o, meglio, donato – ai carcerieri e assassini di suo padre. Un gesto importante di cui ha parlato su invito del dott. Gian Mario Aresu, presidente del Rotaract Club Golfo degli Angeli e moderatore dell’incontro: «Io ho un desiderio disperato di avere giustizia che, però, è la cosa più difficile da avere sulla terra perché giustizia non è solamente individuare i colpevoli e comminare una pena che serva a farli riflettere e cambiare per tornare a fare il loro dovere nella società. Io vedo una differenza tra coloro cui un fallo è stato fischiato per la morte di mio padre e quelli a cui non è stato fischiato, pur avendo avuto pari responsabilità». E poi ha aggiunto: «Quasi tutti i brigatisti coinvolti sono stati presi, però a me questa condanna, per cui sono stati in carcere tanti anni, non ha ridato nulla. Perché quello che viene spezzato non viene ridato. La pena, intesa come vendetta, a te non ridà nulla. Anche con una condanna a pene severe tu non stai meglio. Giustizia non è questo: per me è fatta della memoria che potrete avere di lui e della possibilità di sapere la verità». Ma questa è comunque «una verità possibile, perché si accerta con dei limiti: uno vorrebbe sapere anche il senso di una vicenda e questo nessun’aula di tribunale te lo può dare, non è neppure suo compito».
Il senso non si trova e andare avanti è tuttora difficile, anche perché «passano gli anni e vedi che quell’atto di male continua a produrre effetti. E come lo fermi? Lì nasce il problema di perdonare, che non è un problema etico: è un problema di vita. Una parte di me è sempre ferma tra il 16 marzo e il 9 maggio 1978. E io sono legata a un elastico che non so se si allungherà, se mi tratterrà lì o si spezzerà. Ma io voglio sciogliere questo elastico, voglio andare avanti nella mia vita senza dimenticarlo, senza che invada la mia vita. Però, considerandolo passato».
Dialogare con chi le ha portato via suo padre è stato importante «per sostituire con il volto dell’Altro quei mostri che hanno abitato la mia mente. Invece di mostri, ho bisogno di persone, che hanno fatto, sono state, ma oggi sono altre persone: hanno capito, si sono pentite e hanno cercato di rimediare …senza, però, poterlo fare». E chiudendo la sua toccante e istruttiva testimonianza, seguita da un lungo e caloroso applauso, ha ribadito che «occorre saper distinguere tra ciò che è stato e ciò che è».
Nel dibattito che ha seguito gli interventi dei relatori, Agnese Moro ha poi ripreso questo tema, rispondendo a una domanda sui numerosi appelli che, durante la prigionia, suo padre rivolse a Papa Montini. Questi, ha spiegato, era già intervenuto per liberare il giudice Sossi, anche lui precedentemente rapito dai brigatisti, per cui Moro sperava in una sua intercessione. Che, infatti, ci fu, ma il governo italiano impose al Papa di inserire nella lettera ai rapitori la frase “liberatelo senza condizioni” e questa rigidità, ha sottolineato Agnese, «guastò i rapporti con loro». Per tale ragione «la lettera non servì a liberare mio padre. Ma servì alle coscienze di quelle persone e ha portato frutti anni dopo».
Che dire, invece, della Democrazia cristiana, che optò per la linea dura, rifiutando anche l’intermediazione di soggetti quali Amnesty international e la Croce rossa? Rispondendo alla domanda di un giovane, Agnese Moro ha confermato che suo padre «si è sentito completamente abbandonato. Non l’ha nascosto minimamente ed è una delle cose che più ha fatto arrabbiare il partito (tanto che tentarono di dire che non era in sé, che era impazzito). Cercò di richiamare il suo partito alla sua responsabilità perché per i cristiani la persona viene prima dello Stato». E alla domanda dello stesso giovane che le chiedeva se il partito temesse forse il suo ritorno ha risposto che «le BR compirono autonomamente il gesto, ma attorno a questa vicenda ognuno ci ha messo del suo, ci ha avuto i suoi interessi. Anche perché la democrazia e la Costituzione hanno tolto qualcosa a qualcuno che, avuta l’occasione, ha cercato di riprendersela».
Naturale voler sapere quale sia la sua posizione in particolare nei confronti di Cossiga e Andreotti, all’epoca rispettivamente Ministro dell’Interno e Presidente de Consiglio. “Fu possibile un dialogo con loro, pur non avendo raggiunto un’intesa su ciò che è accaduto?” le ha chiesto un giovane, sentendosi rispondere che «verità, perdono e dialogo sono cose differenti. Per dialogare bisogna essere in due e questi due personaggi non hanno mai manifestato questo desiderio di dialogo, di riguardare criticamente a questi momenti. È possibile perdonare malgrado questo? Ci stiamo lavorando. Il massimo cui sono potuta arrivare è pregare per loro». E poi ha precisato che «Il perdono fa bene a te, gli altri se ne fregano. O perlomeno a loro può non importare. Serve a te per avere un certo modo di guardare al passato».
Sul tema della memoria si è soffermata molto l’avv. Rita Dedola, Presidente dell’Ordine degli avvocati di Cagliari. Nel suo breve ma significativo intervento (lei, peraltro, la prima a usare la parola “statista” nel riferirsi a Moro), ha saputo onorare il dovere della memoria e, al contempo, evidenziare come anche nella professione di avvocato possano e debbano applicarsi quei valori etici perseguiti da Aldo Moro nella sua attività di professore e di politico. Difficile altrimenti non attirarsi la diffidenza di chi – ha sottolineato – ancora tende a vedere gli avvocati come l’Azzeccagarbugli di Manzoni. E per provare a vincere i pregiudizi verso la sua categoria ha voluto precisare che «l’avvocato difende le persone, non i reati, i diritti e non gli interessi».
Ricollegandosi all’intervento di Agnese Moro, l’avv. Dedola si è soffermato sul desiderio da lei espresso di «affidare mio padre a qualcuno». Perché, ha affermato, «abbiamo tutti un dovere di memoria», anche perché si parla di «“Anni di piombo” non solo per il piombo delle pallottole, ma anche per il colore cupo e truce della storia italiana di quel periodo» (altrettanto importante, però, ricordare pure quanto di buono negli anni Settanta accadde, come ha invitato a fare Agnese Moro). E che l’invito a preservare la memoria non sia retorico lo dimostra il fatto che, da Presidente dell’Ordine, abbia preso l’iniziativa di regalare ai nuovi avvocati che prestano giuramento una chiavetta USB con due video, uno incentrato su Fulvio Croce e l’altro dedicato ad Aldo Marongiu.
Fulvio Croce, ha ricordato, era il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Torino all’epoca del primo processo per l’assassinio di Aldo Moro. In quanto tale, fu nominato difensore d’ufficio degli imputati dopo che tutti gli altri avvocati nominati avevano rinunciato. I brigatisti, infatti, non intendevano essere difesi e avevano minacciato di morte chiunque avesse accettato questo incarico. Croce, che peraltro era un civilista e non un penalista, non si tirò indietro e accettò l’incarico «perché andava fatto. Ma lo uccisero per questo».
Aldo Marongiu, noto Aldino, era, invece, un avvocato cagliaritano coinvolto nel cosiddetto “Caso Manuella”, «uno dei più grossi errori giudiziari della storia italiana». Una vicenda drammatica e intricata che forse solo Ottavio Olita, nel suo libro “Vite devastate: il caso Manuella”, non a caso citato anche dall’avv. Dedola, è riuscito a raccontare con chiarezza e oggettività. Accusato di essere il mandante dell’omicidio del collega Gianfranco Manuella (il cui corpo non è mai stato trovato e per cui non è stata confutata neppure la tesi della scomparsa volontaria), fu incarcerato e scagionato dopo quasi due anni e 103 udienze. Tornato libero, però, certamente provato da quest’esperienza, si ammalò e morì.
Ma cosa lega Moro, Croce e Marongiu? «Erano uomini che credevano nella Giustizia. E io credo che la Giustizia stia anche nel dovere della memoria, nel dovere di ricordare questi uomini che in essa ci hanno creduto» ha spiegato l’avv. Dedola.
Chi ha vissuto quegli anni cupi ha, però, anche un altro dovere: «insegnare ai giovani il coraggio del futuro, della speranza. Dobbiamo far sì che si appassionino ai valori della memoria e dell’onestà. Moro era un uomo che aveva un profondo senso dello Stato». E noi «dobbiamo essere grati alla famiglia Moro e agli uomini della scorta perché avevano lo stesso senso dello Stato (che è cosa diversa dalla Nazione). Ci credevano». Ma, si è domandata, «oggi il senso dello Stato ce lo abbiamo? Se non si ha questo, non si ha il senso della Giustizia».
Anche il famoso “compromesso storico”, da lui voluto con i socialisti e poi desiderato con i comunisti, oggi, ha precisato, non è più inteso «nel senso alto di mediazione, di apertura a nuovi afflati». Eppure, quell’approccio è più che mai attuale: «Oggi la situazione è simile: dobbiamo capire perché i giovani occidentali passano tra le fila dell’Isis». Parole sagge, ancor più se consideriamo che sono state pronunciate qualche ora prima dei tragici fatti di Parigi. «Gli Anni di piombo sono sempre lì, pronti a riespandersi, per cui dobbiamo tenere saldo il senso delle istituzioni. E Aldo Moro era certamente un uomo delle istituzioni».
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