Albert Schweitzer: una scelta determinata come esempio di vita etica

Non fu un santo ma un filantropo in difesa della dignità dei più deboli e diseredati

Un secolo fa la partenza per il Gabon

di Ernesto Bodini
(giornalista scientifico)

Anche se la storia dell’umanità è ricca di uomini per i quali il desiderio di fare cose straordinarie fu la molla delle loro azioni, oggi sono assai rari gli uomini che meglio di Albert Schweitzer (1875-1965) hanno saputo (e sanno) ciò che significa essere a contatto dell’umanità sofferente e indigente. Ma perché Schweitzer si è deciso a diventare medico nella foresta vergine? La Medicina per lui non fu una vocazione della gioventù, ma piuttosto degli anni maturi; fu una scelta compiuta dopo essersi lungamente dedicato allo studio della musica, della filosofia, della teologia, ed aver ottenuto il successo in ognuno di quei campi. La spinta interiore lo ha portato ad un filantropico trasporto verso gli altri, ad un amore rivolto ai sofferenti nel senso di condivisione con chi, in qualunque parte del mondo, sia in condizione di indigenza e povertà. Il filosofo alsaziano spiegava: «Avevo letto della miseria corporale degli indigeni nella foresta vergine, ne avevo anche sentito parlare dai missionari. Quanto più ci riflettevo tanto più mi era inspiegabile il fatto che noi europei ci occupassimo così poco del grande compito umanitario che laggiù ci aspettava».

Schweitzer propendeva per un’attività rigorosamente personale e autonoma, e benché fosse disposto a mettersi a disposizione di un’organizzazione, non abbandonò mai la speranza di trovare alla fine un’attività a cui dedicarsi come individuo libero. Considerò sempre la concretizzazione di questo forte desiderio come una grande grazia che, come tutti sappiamo, si realizzò totalmente…  In merito a questa scelta sosteneva: «Solo chi sa trovare un valore in ogni attività consacrandosi ad essa con piena coscienza del dovere, ha l’intimo diritto di prefiggersi un’opera fuori del normale invece di quella che gli tocca naturalmente dalla sorte. Solo chi concepisce il suo proposito come qualcosa di ovvio, non di straordinario, e non conosce l’atteggiamento eroico, ma esclusivamente il dovere assunto con pacato entusiasmo, ha la capacità di essere un avventuriero spirituale… Non ci sono eroi dell’azione, ma soltanto eroi della rinuncia e della sofferenza. Pochi di essi sono conosciuti, non dalla folla, ma da una piccola cerchia di persone… Colui che è stato risparmiato dal dolore deve sentirsi chiamato a contribuire a lenire il dolore degli altri. Tutti, infatti, dobbiamo portare il fardello di sofferenze che pesa sul mondo… Chi dà la propria vita per gli altri la conserva per l’eternità. Chi si propone di agire per il bene, non deve aspettarsi che la gente per questo gli tolga gli ostacoli dal cammino, ma rassegnarsi che, quasi inevitabilmente, gliene metta qualcun altro in mezzo».

Queste sue affermazioni richiamano il concetto di etica, ossia la scienza della condotta morale di ogni uomo. L’etica ha in sé l’idea che è necessario diventare attivi per il bene degli altri ed è uomo “etico” colui che si dedica agli altri. Secondo la sua concezione l’uomo è veramente etico solo quando ubbidisce al dovere di aiutare ogni essere vivente che gli sta attorno e si guarda bene dal recar danno a qualche cosa di vivo. Non si domanda quanto interesse merita questa o quella vita e nemmeno se e quanta sensibilità essa possegga. La vita in quanto tale gli è santa. Etica è responsabilità senza limiti verso tutto ciò che vive. Un chiaro richiamo al pensiero di Johan Volfgang Goethe (1749-1832) che affermava: «Sia nobile l’uomo, pronto ad aiutare e buono». Con gioia aveva esercitato la professione di insegnante di teologia e di predicatore. Non poteva però concepire la nuova attività come una semplice predicazione della religione, bensì soltanto come una genuina attuazione. La preparazione medica avrebbe favorito il perseguimento di questo scopo nella maniera migliore e più completa, dovunque lo avesse portato il cammino. Nell’Africa equatoriale, secondo i missionari, la presenza di un medico era la più urgente delle necessità.

La sua vita ha avuto un’unica tangente: pensatore conscio della sua responsabilità dinanzi agli uomini; artista che cerca con la su arte gli europei all’interiorità, al raccoglimento; medico nel lavoro per la salvezza dei negri. Ed era il Venerdì santo, 26 marzo 1913 (quest’anno è quindi il centenario dell’inizio di questa “gloriosa avventura”), quando i coniugi Schweitzer lasciarono Gunsbach e si imbarcarono a Bordeaux. Una volta giunti a Libreville (capitale del Gabon) li attendevano altre otto ore di navigazione per giungere a Port Gentil. Il 15 aprile lasciarono la nave “Europe” per imbarcarsi sul battello fluviale “Alembé”, percorrendo l’Ogooué (un fiume lento, limaccioso, largo tre volte il Po, che si apre la strada nell’intrico verde della foresta per centinaia e centinaia di miglia), quindi a Lambarènè alla missione N’Gomo, accolti con molta cordialità dai missionari Christol e Ellenberger. Da qui in poi la vita operosa di Albert Schweitzer e sua moglie Hélène Bresslau non ha avuto confini, sino al riconoscimento del premio Nobel per la pace nel 1952, grazie al quale poté realizzare le “Village Lumiére”, dedito alla cura dei malati di lebbra. «Certo non bisogna crederlo un santo – come scrisse un giornalista che ebbe modo di conoscerlo –. È un uomo con tutti i difetti umani, ma come uomo è grandissimo». Quando John Gunther (1901-1970), scrittore e giornalista statunitense, visitò Schweitzer a Lambarènè nel 1954 scrisse: «Schweitzer è troppo al di sopra, troppo complesso per afferrarlo facilmente, è un uomo universale», e quando gli chiese se si sentiva più francese o più tedesco, la sua risposta fu istantanea, senza ombra di dubbio: «Homo sum». Ecco perché ho voluto ricordarlo, ancora una volta!

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