AL M.B.C. DI TORINO SI PARLA SEMPRE DI PREVENZIONE E SALUTE
La prevenzione delle malattie renali e dei disturbi cognitivi nell’anziano
di Ernesto Bodini (giornalista scientifico)
Un pubblico sempre più numeroso ha seguito due relazioni sui temi: Le malattie renali sono in aumento?, a cura della dott.ssa Margherita Dogliani, e I disturbi cognitivi dell’anziano… campanelli d’allarme e strategie di prevenzione, a cura della dott.ssa Daniela Leotta, ambedue dell’Università subalpina. La prima relatrice, nell’introdurre la sua relazione ha ricordato alcuni aspetti di anatomia e fisiologia dei reni, citando ad esempio lo storico Galeno che fu il primo a riconoscere i reni come produttori dell’urina. Tali organi eliminano con le urine le scorie “azotate” e le “tossine” idrosolubili, regolano la quantità di acqua nell’organismo come pure la pressione arteriosa. Sono funzioni complesse e interdipendenti: le scorie azotate si accumulano quando ne produciamo in eccesso o quando i reni funzionano bene; le tossine se si accumulano possono danneggiare l’organismo specie se il rene non funziona in modo corretto, o se ne produciamo in eccesso. «Tra le scorie l’urea da cui deriva il nome di urina – ha spiegato la dott.ssa Dogliani, nella foto – è la più abbondante, e l’azotemia è l’esame che dosa l’urea nel sangue. Quando si manifesta l’uremia (malattia renale) ad uno stadio avanzato, la terapia è il ricorso alla dialisi o al trapianto dell’organo. Mentre la creatinina è una scoria tossica prodotta dal metabolismo muscolare; invece per eliminare le tossine idrosolubili presenti nel sangue, è necessario un elevato flusso renale di sangue». I reni sono costituiti di vasi e glomeruli (vasi microscopici) e, unitamente ai tessuti, vengono a contatto con le sostanze tossiche nelle loro molte funzioni. Il corpo umano è costituito per la gran parte di acqua: con la filtrazione glomerulare si producono nelle 24 ore circa 180 litri di ultrafiltrato privo di proteine, i tubuli renali riassorbono acqua, e da qui la produzione di urina. «L’esame delle urine – ha proseguito – consente di conoscere il lavoro del rene normale e patologico (esame chimico). Il sodio (sale) è indispensabile alla vita ma è una tossina e non deve essere in eccesso, tant’è che un rene sano è in grado di correggere questo rischio. Quando i reni si ammalano la diagnosi consiste nell’esame delle urine, della creatinina e con l’ecografia renale. La creatinina è la “spia” della funzione renale i cui valori normali devono rientrare in 0,57-1,1 mg/dl, e i relativi fattori di correzione sono da identificarsi in base all’età, al peso, al sesso e all’etnia; mentre l’ecografia renale dà ulteriori indicazioni sulla morfologia dei reni (descrizione della forma e dimensioni) per escludere eventuali patologie urologiche». Tra le patologie renali nel 1829 fu scoperto e descritto il “Morbo di Bright”, espressione di fibrosi del rene, cuore ingrossato e presenza di albumina nelle urine. È una condizione patologica cronica che, giunta all’ultimo stadio, può portare a dialisi o al trapianto dell’organo, se non alla morte. Nel 2023 in Piemonte 715 persone sono entrate in dialisi per malattia renale irreversibile, e ciò rappresenta un problema di salute pubblica, ulteriore rischio tra l’altro di malattie cardiovascolari (e ciò comporta l’ospedalizzazione), disfunzione cognitiva e riduzione della qualità di vita. Ma perché la malattia renale cronica (MRC) è in aumento? «Bisogna considerare – ha specificato la nefrologa – il problema dell’età in quanto con il passare degli anni si riducono le funzioni renali a cominciare dai 30-40 anni, e dai 65-70 anni vi è una apparente accelerazione e riduzione del GFR (indicatore della quantità di sangue che viene filtrata dai glomeruli al minuto, ndr). I reni invecchiano perché sono costituiti da vasi continuamente esposti a tossine, e quando i nefroni (unità microscopiche che filtrano il sangue e producono urina, ndr) smettono di funzionare stimolano i processi fibrotici, in considerazione anche del fatto che nel rene ci sono molte cellule (“senescenti”), anch’esse stimolatrici della risposta fibrotica tissutale. La fibrosi renale è il processo irreversibile ad andamento progressivo; sono invece in riduzione le malattie renali “primitive” ed urologiche grazie alla terapia antibiotica e alla diagnosi precoce…». Tutte le malattie vascolari sono in aumento in quanto generate da malattie renali precedenti, ipertensione, diabete, obesità, squilibrio del sistema immunitario e abuso di farmaci. In quest’ultimo caso si parla di patologia renale da farmaci e, a riguardo, va rilevato che in Italia gli ultra 65enni sono il 20% della popolazione e consumano il 33% dei farmaci: cardiovascolari, psicofarmaci, gastrointestinali, analgesici, ipoglicemizzanti, potassio, etc. In sintesi si parla di nefrotossicità da farmaci. Ma in buona sostanza, quale la prevenzione? «Anzitutto – ha concluso la dott.ssa Dogliani – diagnosi precoce, nutrizione corretta, terapia mirata, e ricerca per identificare i meccanismi della fibrosi, rallentare la progressione del danno renale e l’invecchiamento, oltre a controlli specialistici nefrologici a seconda della stadiazione della malattia, con particolare riguardo alla comparsa della ipertensione arteriosa, al sovrappeso e al diabete, oltre ad assumere una alimentazione corretta. Va da sé di ricorrere al medico specialista per il trattamento preventivo dell’evoluzione del danno renale, che potrà predisporre nuove prospettive terapeutiche».
Non meno interessante l’argomento sulle patologie neurologiche come quello delle demenze, più specificatamente i disturbi cognitivi dell’anziano, in merito ai quali è dato a sapere che la popolazione mondiale invecchia sempre di più. Negli ultimi 50 anni l’invecchiamento della popolazione italiana, ad esempio, è stato uno dei più rapidi, e si stima che nel 2050 gli ultra 65enni saranno il 35,9% della popolazione totale, con una attesa di vita a 82,5 anni (79,5 per gli uomini e di 85,6 per le donne). Va inoltre rilevato che nei prossini 5 anni il numero di persone di età uguale o superiore a 65 anni supererà quello dei bambini al di sotto dei 5 anni. Tale veloce processo di invecchiamento è caratterizzato dal fatto che le donne sono tendenti vivere più a lungo rispetto agli uomini (processo cosiddetto di “invecchiamento al femminile”), ma per esse non significa necessariamente vivere meglio. «In effetti – ha spiegato la dott.ssa Leotta, nella foto – si tratta di invecchiare in salute, che nell’anziano significa non solo meno malattie ma anche mantenimento di un benessere psicofisico e relazionale… anche in presenza di una o più patologie. Tra gli indicatori per misurare una condizione di benessere della popolazione è l’aspettativa di vita priva di disabilità. In merito alla conseguenze di un invecchiamento così intenso e veloce della popolazione, così come altri stati fisiologici e patologici, è fortemente influenzato sia da fattori genetici che ambientali. La relazione fra tali fattori e individuo è specifica ed è in parte modificabile. In tarda età, anche se in misura diversa da un soggetto a un altro, tutte le funzioni cerebrali (cognitive, affettive, motricità, equilibrio, sonno-veglia, etc.) vanno incontro a modificazioni realizzando il peculiare modo di essere dotto il profilo intellettivo, psicologico, comportamentale e funzionale di ciascun anziano». Relativamente all’invecchiamento “cognitivo normale” la relatrice ha precisato che anche le persone normali possono lamentare di un cambiamento della memoria, e ciò comporta problemi come difficoltà di concentrazione in presenza di distrazioni, ridotta capacità di elaborare informazioni provenienti da canali diversi, difficoltà in compiti multi-tasking (azioni o comportamenti in simultanea, ndr), rallentamento dei tempi di reazione, lieve diminuzione della memoria verbale ritardata. «Nella maggior parte dei soggetti – ha precisato il clinico – l’invecchiamento si accompagna al declino di una serie di abilità funzionali, cognitive e comportamentali. In molti casi questo declino benigno può essere effetto della senescenza, in altri soggetti può rappresentare il sintomo di esordio di demenza o disturbo neurocognitivo maggiore. Un danno al cervello può provocare cambiamenti all’emotività, nella personalità e nella capacità di ragionamento, ed è dato a sapere che la maggior parte delle demenze provoca un danno graduale, in modo tale che gli effetti non sono immediatamente visibili». Dal punto di vista epidemiologico l’Oms stima che attualmente nel mondo siano presenti 50 milioni di persone affette da demenza. In Italia circa 1 milione di persone sono affette da demenze di cui 600 mila dal morbo di Alzheimer, malattia (eponimica) che prende il nome dal neuropatologo tedesco Alois Alzheimer (1864-1915), che nel 1907 pubblicò i rilievi post-mortem di una donna di 51 anni affetta da una grave forma di demenza. La relatrice ha proseguito spiegando: «I processi patologici si sviluppano molto prima dell’esordio dei sintomi, in un lungo periodo di malattia. È quindi necessario effettuare la diagnosi il più precocemente possibile, ma soprattutto identificare la popolazione a rischio per attuare precocemente interventi di prevenzione, e ciò allo scopo di limitare l’incidenza per ritardare l’inizio della malattia”. Ma quali i segnali d’allarme? Secondo la dott.ssa Leotta l’evidenza di deficit della memoria che condiziona lo svolgimento delle attività quotidiane, difficoltà nell’eseguire compiti usuali, difficoltà di linguaggio nel trovare le parole, disorientamento nel tempo e nello spazio, ridotta capacità di giudizio, difficoltà di ragionamento astratto, collocazione degli oggetti in posti sbagliati, cambiamenti di umore e di comportamento, cambiamenti di personalità, perdita di iniziativa. Per quanto riguarda il problema della memoria cosiddetta episodica, si tratta di far rivivere ogni aspetto, compresi quelli contestuali di un evento personale trascorso e di rendere tutto ciò ben esplicitabile… Il cosiddetto working memory è un sistema di immagazzinamento ed elaborazione temporanea usata per risolvere problemi ed altre operazioni cognitive, che si realizzano nell’ambito di un tempo limitato; mentre le funzioni esecutive sono quelle capacità che rendono un individuo in grado di assumere con successo un comportamento indipendente finalizzato e auto-conservativo. Ma si può prevenire la demenza? «Esistono la prevenzione primaria – ha spiegato la neurologa –, ossia prima che la malattia o il danno si verifichino; quella secondaria, ossia la riduzione degli effetti, e la terziaria che consiste nel ridurre l’impatto a lungo termine. Diversi soni i fattori di rischio modificabili che possono prevenire il 45% dei casi di demenza. A riguardo numerosi studi dimostrano che dieta, esercizio e vita sociale fanno notevole differenza nel garantirci un cervello sempre “in forma” per tutta la vita. Inoltre, utile una serie di comportamenti: far lavorare il corpo, evitare fumo e alcol, prendersi cura del proprio cuore, seguire una dieta equilibrata, stimolare la mente e mantenere rapporti sociali. Tutto ciò aiuta a prevenire la malattia di Alzheimer». Per quanto riguarda il fattore memoria e l’apprendimento sono manifestazioni della “plasticità neuronale”, ossia della capacità del sistema nervoso di adattarsi al cambiamento dell’ambiente interno ed esterno. In pratica è la funzione psichica volta ad assimilare, trattenere e richiamare informazioni apprese durante l’esperienza. Ma come si fa ad allenarla? La relatrice ha suggerito: «Prendere appunti o fare delle liste per ricordare ciò che deve essere fatto; utilizzare dei post-it o dei promemoria che agevolino il recupero delle informazioni, cercare di raggruppare le informazioni nuove in categorie e creare associazioni; in questo modo si agevola il processo associativo della memoria: apprendere per immagini sfruttando il potenziale della memoria visiva che mantiene le informazioni sensoriali visive nel tempo, fare cruciverba o esercizi che consentono di tenere allenata la nostra capacità di ricordare». Nel concludere la dott.ssa Leotta ha precisato che gli interventi rivolti alla persona con demenza riguardano per la maggior parte quelli di carattere psico-sociale, in quanto studi scientifici sono indirizzati a supportare i pazienti affetti da demenza nel mantenimento di un equilibrio emozionale, nel fronteggiare le disabilità e nel mantenimento delle funzioni cognitive e dell’autonomia nelle attività della vita quotidiana.
Foto a cura di Giovanni Bresciani