“Sulla faccia della terra” ci insegna a stare Giulio Angioni

un uomo seduto accanto a un altro con un microfono in mano

Breve ma intenso, l’ultimo libro di Giulio Angioni ci ricorda che – anche se non siamo «angeli, caduti dal cielo ieri sera sulla faccia della terra» – possiamo e dobbiamo comunque provare a rendere il mondo migliore.

copertina del romanzo Sulla faccia della terra di Giulio Angionidi Marcella Onnis

“Sulla faccia della terra”, ultimo libro dello scrittore e antropologo Giulio Angioni, è stato scelto da Feltrinelli per il progetto “Indies” con cui, attraverso la collaborazione con editori indipendenti (in questo caso Il Maestrale), mira a “scovare” nuovi autori e romanzi di pregio da proporre al grande pubblico. E bene ha fatto la celebre casa editrice a scommettere su questo libro che ha tutto ciò che serve per colpire il lettore:  stile affascinante, contenuti “di peso” e capacità di emozionare.

UN PICCOLO GRANDE LIBRO – Utile per approfondirne la portata “formativa”, come pure per conoscere la personalità del suo autore, è quanto da quest’ultimo raccontato a Paolo Lusci lo scorso 31 luglio a San Sperate, durante l’ultima edizione del festival “Cuncambias”.

Il libro prende avvio dalla distruzione ad opera dei pisani, nel 1258, della città di Santa Gia (ossia Santa Igia), capitale del giudicato di Cagliari, che sorgeva su una delle rive dello stagno di Santa Gilla, oggi territorio del capoluogo sardo. «La voglia di scrivere dei fatti legati alla distruzione di Santa Gia, della guerra tra genovesi e pisani per… aggiudicarsi il giudicato, me la porto dietro da 15 anni» ha raccontato Angioni, che già in passato aveva lasciato “maturare” un’idea letteraria: «Altre volte mi è capitato di portarmi dietro la voglia di scrivere una storia. Quella di Sigismondo Arquer [narrata in “Le fiamme di Toledo”, ndr] me la sono portata dietro per una ventina d’anni». L’occasione per mettere nero su bianco la sua personale narrazione dei fatti di Santa Gia gli è arrivata grazie alla collaborazione della sua casa editrice con la Feltrinelli ed è riuscito a realizzare questo desiderio in 4-5 mesi: «Di solito gli altri libri crescono, in questo invece ho tolto (rispetto al materiale che avevo raccolto) ed è venuto fuori un libro piccolo».

Piccolo, ma – scanso equivoci – non “sbrigativo”.  Da buon antropologo e come d’abitudine, ha, infatti, intrecciato la trama con i risultati di un’accurata ricerca storica. E non meno attenzione ha prestato alle scelte stilistiche e alla cornice letteraria in cui incastonare considerazioni su cui, come il personaggio di Baruch, forse qualche volta spera d’esser smentito. Seppur breve, quindi, questo non è certamente un libro da divorare, magari sotto l’ombrellone: è un libro da meditare passo per passo. E d’aiuto in questo, al non esser frettolosi nella lettura, è anche la non semplice costruzione sintattica dei periodi.

primo piano di Giulio AngioniLIBRI BUONI E CATTIVI – Scrivendo si parte dunque da un’idea, ma non si sa bene a cosa si approderà: «Quelli che scrivono credono di avere modi collaudati che si ripetono, ma quando la storia ti prende… Certo, chi scrive romanzi gialli in serie ha degli schemi che segue e che funzionano, anche con i lettori, come sappiamo» ha affermato Angioni. Ancor più schietto è stato quando Lusci ha ricordato che, con Salvatore Mannuzzu, è considerato padre della “scuola sarda del giallo”: «Quando mi sento definire un autore di gialli, mi sento un po’ diminuito». Affermazioni simili stuzzicano un certo tipo di domande, ad esempio sulla differenza tra libri facili e libri difficili: «Non c’è differenza quando sono buoni» ha risposto Angioni, per poi aggiungere che «certi libri difficili richiedono conoscenze che certuni non hanno per cui possono essere più popolari quelli che non le richiedono. […] I libri è meglio dividerli in buoni e cattivi, piuttosto che in facili e difficili».

IL DAY AFTER SECONDO GIULIO ANGIONI – «Questa storia mostra subito che si rifà a degli schemi, dei topoi. Ad esempio, ci sono degli scampati, come nell’Eneide o in Robinson Crusoe» ha spiegato lo scrittore, ma – ha aggiunto – «non mi rendevo conto che stavo usando uno schema potente e vecchio che si rinnova: lo schema del “day after, molto usato nel cinema, ossia quello del rifarsi una nuova vita su basi diverse». Di un altro precedente letterario si è, invece, sovvenuto dopo: “Il signore delle mosche” di William Golding (pubblicato nel 1952), da cui sono anche state tratte due trasposizioni cinematografiche, datate 1963 e 1990. Tra “Sulla faccia della terra” e questo romanzo – che, come ha ricordato Angioni, è figlio della paura dell’atomica – ci sono, però, delle differenze importanti: nel romanzo di Golding «i ragazzi ricominciano subito a riprodurre i guai da cui provengono; è un’esperienza che fallisce. Qui, invece, l’esperienza di doversi rifare una vita riesce, almeno fino a  un certo punto». L’isola – anzi, l’Isola – in cui è ambientata la storia e in cui l’esperimento prende forma diventa un luogo di scambi, di cuncambias (che in sardo significa “baratto”), come ha ricordato Angioni per sottolineare il legame con la manifestazione di cui era ospite. I suoi abitanti, infatti, «sono persone molto diverse (sardi, un ebreo, una persiana, tedeschi …), spinte a dover sfruttare le capacità di ciascuno. È una micro-esperienza positiva, ma è piuttosto raro che la gente riesca in quest’esperienza. Ho cercato di dimostrare come i problemi vengono man mano risolti, seppure parzialmente».

Un risultato reso possibile anche dal fatto che questa piccola comunità rifiuta la gerarchia verticale e sceglie un’organizzazione orizzontale, ha opportunamente fatto notare Paolo Lusci. A questo equilibrio, però, si arriva con naturalezza, ha evidenziato Angioni, «perché è una necessità. Bisogna stare insieme tra schiavi e nobili, maschi e femmine. E ciascuno contribuisce in un modo necessario con quello che sa e può fare affinché l’esperimento riesca. La loro forza è il terrore del contagio della lebbra». L’Isola in cui si stabiliscono è, infatti, l’isolotto in cui a quel tempo venivano esiliati i lebbrosi.

un uomo seduto accanto a un altro con un microfono in manoIL PERCHÉ DEL DOVE E DEL QUANDO – Sempre Lusci ha rilevato anche il ruolo centrale che nel romanzo è giocato dallo stagno, anzi, lo Stagno, elemento che consente all’autore di approfondire il rapporto Uomo-Natura. Su richiesta del pubblico, Angioni ha spiegato il perché di quest’ambientazione geografica: «Ho scelto lo stagno perché mi interessa moltissimo, ma si è scritto poco. Volevo scrivere un racconto dove lo stagno è il protagonista principale». Quanto scrive in queste pagine, del resto, legittima la sua scelta: «aveva senso già senza gli uomini, lo Stagno», che come gli uomini ha una personalità complessa. Perché «Lo Stagno cambia di anno in anno, di stagione in stagione, A volte all’improvviso, per piene e mareggiate. Ogni volta bisogna reimpararlo. A farne carta o mappa o portolano non c’è sugo».

Quanto all’ambientazione storica, la scelta è ricaduta su questo periodo perché è «l’epoca in cui finisce il giudicato di Cagliari e tutta la Sardegna viene sottomessa alle due repubbliche marinare di Pisa e Genova. È il momento che, per noi sardi, è considerato la fine della libertà».

SIAMO CIÒ CHE RACCONTIAMO – Tornando agli elementi chiave del romanzo, tra questi c’è anche la narrazione. «Noi siamo per noi ciò che riusciamo a raccontare di noi stessi. E per gli altri siamo ciò che loro raccontano di noi»: con questa citazione Lusci ha evidenziato come la narrazione sia «un elemento caratterizzante della comunità». Il perché l’ha ben chiarito Angioni in uno dei passaggi più significativi del loro pubblico dialogo: «Se c’è una cosa che la Storia riesce a insegnare è che bisogna mangiare per vivere, che bisogna organizzarsi per vivere, ma anche dare un senso a ciò che si fa. Ci deve essere vita intellettuale». Perché ha ragione Baruch – uno dei personaggi principali – a dire che «o siamo memoria o non siamo per niente».

Ricollegandosi anche al libro di Omar Onnis, “La Sardegna e i sardi nel tempo”, presentato la sera prima a “Cuncambias”, Paolo Lusci ha, quindi, domandato allo scrittore-antropologo se noi sardi dobbiamo cambiare il nostro modo di raccontarci. La risposta è stata immediata: «Dobbiamo sicuramente raccontarci. E dobbiamo anche chiederci dove siamo». Ritornando all’umanità in generale, Angioni ha poi aggiunto: «Il modo più collaudato e potente di vivere la vita è quello di raccontare. Da sempre. Questo spiega anche perché siamo qui e perché si scrivono libri».

un attore legge una pagina di un libro davanti a un microfonoBellissime, non a caso, sono le parole che, in queste pagine, l’autore dedica al libro e su cui, sempre non a caso, Lusci si è soffermato: «Un libro che nessuno legge, non serve, non comanda. […] Cosa per dire cose: questo è un libro, se lo sappiamo far parlare. Se no, sta zitto. Il libro parla se tu vuoi, quando e quanto ti garba e quanto sai e puoi. Un libro è l’amico più discreto. Non si consuma un libro, se lo leggi. Anzi, più lo leggi e più cresci. E tu con lui. Non è come col pane e col formaggio, quello che mangi tu io non lo mangio, e finito è finito […] Un libro è meglio. Se lo leggono in molti, cresce molto. Finch’è letto non smette mai di dire quello che ha da dire, a chi lo legge, che sia letto in silenzio tutto solo, o a molti a voce alta in compagnia. Vale sempre più dei soldi che lo paghi, un libro . […] Toccano il cielo con un dito, i libri, anche se non sono né Bibbia né Corano, verbo divino che dura in eterno. E parlano tra loro, i libri, di tutto, pure di se stessi, tramite chi li legge. Grazie a chi li scrive. E anche a [chi] li fa».

LIBRO IN CRISI… MA NON TROPPO – Preoccupa, quindi, che il libro sia un po’ in crisi, come ha ricordato Lusci. Angioni, però, non è allarmista: «L’assedio degli altri mezzi non mi impressiona, perché sono anche loro in crisi».

Ha poi così commentato i recenti dati, richiamati da Lusci, secondo cui nel nostro Paese si legge poco rispetto all’Europa: «in Italia è la qualità delle letture che è alta, mentre secondo me in Europa è bassa». A suo parere, inoltre, occorre ricordare che oggi sono una realtà fatti un tempo insperabili: «20-30 anni fa era un sogno per un sardo scrivere un libro fatto in Sardegna, letto da sardi e comprato in Sardegna». In proposito, Lusci ha rilevato come anche all’estero sia cambiata la percezione dell’editoria sarda. Per tali ragioni, secondo lo scrittore-antropologo, è sensato parlare di “scuola sarda”, «di questo fenomeno nuovo: in Sardegna si fanno libri come in qualunque altra parte del mondo».

I NOSTRI PISANI – Di Sardegna e del mondo ha parlato anche rispondendo a una domanda del pubblico su chi siano oggi i nostri pisani (dove “nostri” in origine stava per “dei sardi”, ma ha finito con il significare “di tutti”): «Per fortuna non abbiamo più gente che arriva in armi come pisani e genovesi nel Medioevo né come i loro soldati di ventura tedeschi. Ma è chiaro che ci sono, almeno come metafora. Io dico che è il capitalismo finanziario, ma so che non è politically beautiful. Il guaio della Sardegna di oggi è quello del mondo di oggi, con qualche particolarità ma non da pensarla così particolare: non sappiamo come ricavare qualcosa dall’energia dei giovani e dall’esperienza dei vecchi. È tutto il mondo di oggi che non sa che fare dei giovani e dei vecchi. Da antropologo dico che non c’è mai stata una società con questa situazione».

Di fronte a quest’allarmante considerazione, è nata spontanea la domanda di Lusci: «La parola speranza che posto occupa nei libri di Angioni?» Altrettanto spontanea è sorta la risposta: «Speriamo bene!». E comunque vada – concludiamo con la stessa citazione fatta dal presentatore – «Anche se la vita è una battaglia persa è sempre da combattere».

 

Foto di Giuseppe Argiolas. In alto Giulio Angioni, al centro Angioni con Paolo Lusci, in basso l’attore Giacomo Casti mentre legge un passaggio del libro.

 

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