Per una migliore qualità di vita

tre medici con camici bianchi e stetoscopi

Anche l’empatia tra medico e paziente soprattutto in ambito oncologico per meglio affrontare la sofferenza

di Ernesto Bodini
(giornalista scientifico)

tre medici con camici bianchi e stetoscopiFrequentare corsie di ospedali, convegni medico-scientifici e fare interviste a clinici particolarmente impegnati soprattutto nell’ambito dell’oncologia clinica (e/o chirurgica) per motivi professionali (e socio-culturali), ogni volta è un impegno e un coinvolgimento emotivo ed umano che non mi dà “tregua”, ma che tuttavia mi porta sempre più ad essere vicino alla disciplina medica e in taluni casi alle persone sofferenti. Da queste conoscenze e relativi approfondimenti emerge sempre un denominatore comune: “per una migliore qualità di vita”. Sembra scontato, anzi retorico, ma non è così perché tra i doveri di chi si propone per somministrare farmaci o rimedi in pazienti affetti da una o più patologie, vi è quello perseguire il miglioramento della qualità di vita. Un impegno che in forma più estensiva, richiama la Carta di Ottawa (OMS) del 1986 la quale, in sintesi, recita: “La salute vive e cresce nelle piccole cose di tutti i giorni. A scuola, sul lavoro, in famiglia, nel gioco, nell’amore… La salute si crea avendo cura di sé stessi e degli altri, sapendo controllare e decidere dei propri comportamenti, facendo in modo che la comunità in cui si vive favorisca la conquista della salute per tutti”. Questo dal punto di vista generale, ma quando si tratta di patologie importanti come quelle oncologiche, ad esempio, il concetto di “qualità di vita” diventa a maggior ragione un imperativo, sia per la severità della malattia che per il coinvolgimento di più persone dedite alla cura del paziente.

primo piano di Sylvie Ménard con indosso un camiceMa quali considerazioni si possono (e si devono) fare nel momento in cui si tratta di “impegnare” il paziente in un percorso terapeutico quale è, ad esempio, la chemioterapia? A questo proposito mi sovviene l’esperienza di Sylvie Ménard (1948), un’oncologa francese colpita dal cancro (mieloma multiplo), che ha descritto in un’intervista il programma della propria vita, fondato sull’esperienza personale, simile peraltro a quello che ogni medico dovrebbe costruire per il proprio paziente, con la forza della cultura e la ricchezza della vicinanza: «Il cancro non prenderà la mia vita, non la lascio certo nelle sue mani. La prima battaglia la vinco io e non mi do per vinta. La chemio ad alte dosi fa soffrire me, ma anche lui. Se pensa che si salverà dalla morte, chi è ammalato di cancro accetta di vomitare anche tre giorni di seguito». Un atteggiamento fortemente determinato quello della dottoressa Ménard, non dissimile, a mio avviso, da quello di Sigmund Freud (1856-1939), padre della Psicanalisi, il quale nelle fasi avanzate della lunga e terribile malattia (cancro del cavo orale) scriveva: «La vita non mi dà gioia, da diversi punti di vista sono un relitto, ma sono in possesso delle mie facoltà intellettuali, lavoro ancora. Preferisco pensare tra i tormenti che non pensare». Due esperienze alquanto significative che riguardano sì due pazienti-medici, ma che esprimono il valore della sofferenza non disgiunto dall’attaccamento alla vita, sia dal punto di vista intellettuale che da quello materiale. Ecco allora che gli incontri-dibattito sulla chemioterapia e la qualità di vita, come di tanto in tanto vengono proposti, ben si inseriscono in un contesto più allargato in quanto prevede diversi contributi: la conoscenza, l’aggiornamento, la comprensione e la condivisione.

Mi pare anche interessante, proprio per estendere la conoscenza, quanto riportato da una rivista di Oncologia medica online sulla figura del medico oncologo, uno specialista che molti hanno conosciuto ed apprezzato per la “particolare” dedizione, e per la delicatezza nell’espletare tale ruolo, talvolta anche in circostanze… drammatiche. «Noi oncologi – recita il testo – riteniamo indispensabile entrare in un rapporto vero e sincero con ogni singolo malato, per guardare oltre, per dare speranza, capaci di supportare realmente le persone nel dolore, di assumere il ruolo di guida all’interno di un mondo di incertezza dove tutto si muove e cambia di attimo in attimo. Perché questo è il mondo delle persone: dei malati e di noi, medici, infermieri e volontari. Con motivazione e desideri, con problemi e paure, con la consapevolezza della forza e momenti di debolezza, con capacità e limiti. Medici e malati come compagni di viaggio, per anni insieme, con zaini diversi, con un carico grave per entrambi, a volte sbilanciato per ciascuno. Perché il percorso professionale di un oncologo è anche percorso di vita ed impegno nella presenza e nella ricostruzione di un mondo personale ed umano, nello scenario di una medicina non sempre e non completamente vincente, nell’incontro con una persona ferita. Questo ha portato gli oncologi a riconsiderare il concetto di responsabilità verso il malato, nella consapevolezza che prendersi cura sostiene una razionalità sociale che non si limita ai criteri di economicità ed efficienza, ma pretende qualità relazionali, fiducia reciproca, rispetto delle differenze e delle idee, promozione del rispetto di sé indispensabile perché il malato di cancro conservi la consapevolezza del proprio valore esperenziale ed esistenziale». Su queste affermazioni, così scontate oltre che autorevoli, non posso che richiamare l’attenzione del lettore rilevando l’importanza non solo del conoscere ma anche nel condividere, poiché l’empatia tra medico e paziente (soprattutto in oncologia) talvolta è la “carta vincente” per abbattere insieme un avversario del quale non se ne conosce le “potenzialità”, ma non per questo… invincibile.

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